Addio al reddito grillino: ecco il restyling di Draghi

A settembre la riforma degli ammortizzatori. Renzi esulta: è bastato proporre il referendum...

Addio al reddito grillino: ecco il restyling di Draghi

«È bastato proporre il referendum per scatenare il caos. Adesso capiscono che non è uno scherzo. E corrono ai ripari: persino Di Maio vuole cambiare quella legge». Matteo Renzi è euforico perché, dopo aver destrutturato il governo Conte e i suoi provvedimenti, adesso con la consultazione popolare punta all'obiettivo grosso: il reddito di cittadinanza, più che una misura-bandiera quasi la ragione sociale dei Cinque stelle. «La legge è stata votata da Lega e M5s ed è difesa da Pd e Leu: l'unica strada è il referendum; ci daranno ragione in tanti», aggiunge l'ex premier sottolineando che «è scontato che Draghi si muova con prudenza».

Il presidente del Consiglio venerdì scorso parlando con i giornalisti aveva spiegato che «è troppo presto per dire se cambierà la platea dei beneficiari: quello che vorrei dire è che il concetto alla base del reddito di cittadinanza io lo condivido in pieno». Insomma, Draghi ha lasciato intendere che potrebbe sopravvivere la parte destinata al sostegno anti-povertà, ma non si è sbilanciato sull'utilizzo della quota finalizzata alle politiche attive per il lavoro.

Un concetto espresso anche dal presidente grillino della Camera, Roberto Fico che ha dichiarato a Repubblica che «questa misura può essere ampliata, migliorata, ma non depotenziata, perché il reddito di cittadinanza aiuta i più deboli», ma «le politiche attive devono essere supportate, migliorate, bisogna investire, anche grazie ai fondi del Pnrr; non ho tabù ideologici da questo punto di vista». Gli stessi tabù che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, aveva fatto cadere aprendo a un coinvolgimento delle aziende nella riqualificazione dei lavoratori, ovviamente con fondi ad hoc.

La partita è nelle mani del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che a settembre dovrà coniugare la riforma del reddito di cittadinanza con quella degli ammortizzatori sociali. Il punto di contatto tra i due dossier sta nella riqualificazione dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro. Il reddito ha fallito perché su 1,05 milioni di beneficiari (circa un terzo del totale) che dovevano sottoscrivere il Patto per il Lavoro, quello che impegna a rispondere alle offerte proposte dai centri per l'impiego, sono state prese in carico solo 330mila persone. Di queste, 152.673 hanno trovato un lavoro, appena il 15,19 per cento. Hanno fallito i Centri per l'impiego, hanno fallito i navigator, ha fallito il reddito. Probabilmente per la sua stessa natura di sussidio rivolto a una platea di «esclusi» dei quali il 72% ha appena la licenza media e solo il 20% ha lavorato per più di tre mesi prima di aprile 2019, data di introduzione della misura.

Su circa 9 miliardi di spesa, pertanto, almeno un terzo potrebbe essere dirottato verso i nuovi ammortizzatori. Anche perché la bozza del ministro, che oggi sarà discussa con i sindacati, non specifica adeguatamente il finanziamento e la platea della nuova Gol (Garanzia di occupabilità del lavoratore), prevista dal Pnrr e finalizzata al reinserimento dei disoccupati.

Ci sarebbe poi il problema relativo alla formazione dei percettori del reddito che non lavorano, se renderla obbligatoria o facoltativa, di fatto equiparando la misura grillina al Rei del governo Gentiloni, un sussidio di povertà puro e semplice. Ma la perdita della caratteristica di universalità svuoterebbe la grande conquista M5s e renderebbe ancor più fragile la nuova leadership di Giuseppe Conte.

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