Ma adesso vietiamo le gite buoniste delle "Silvie"

Giusto salvare i rapiti, ma è tempo di impedire ai nostri figli di recarsi in zone a rischio

Ma adesso vietiamo le gite buoniste delle "Silvie"

La felicità per il ritorno di Silvia Romano è massima e dobbiamo essere grati alle nostre istituzioni che hanno fatto quanto necessario per farla rientrare, anche in buona salute. Quando si evocava la sua mancanza, nei mesi scorsi, molti di noi riflettevano sulla posta in gioco. Una giovane figlia di genitori che l'avevano cresciuta con affetto e speranze, per farla diventare una brava e bella persona e stare bene al mondo. Sicuramente ci sono riusciti, ma quella vita e quella speranza erano state improvvisamente mortificate dalla realtà. Una realtà dura e violenta, in cui quella vita valeva solo i soldi di un riscatto, per bestie non differenti da quegli italiani che rapivano e tenevano in un fosso in Aspromonte.

Gentaglia sub-umana verso cui il nostro Stato dovrebbe scagliarsi con forza e segretezza. Vendetta? No, protezione. Di tutti gli altri e le altre Silvie. Sono circa 20mila i nostri concittadini impegnati all'estero nella cooperazione internazionale. Da ieri sono più esposti, perché l'Italia paga e giustamente, secondo la nostra cultura: non si lascia un figlio o una figlia a morire.

Certo, non tutti si trovano in zone ad elevato rischio, ma tutti sono senza la rete del nostro ordinamento e delle nostre garanzie civili. Nell'antichità, un civis romanus godeva della protezione delle sue leggi anche oltre la periferia dell'impero. Più recentemente, gli israeliani hanno perseguito criminali e terroristi in ogni angolo del mondo. Quanto valga la protezione italiana l'abbiamo visto con i marò e con Giulio Regeni.

Allora, come proteggere i nostri concittadini? Magari, non lasciandoli partire o riportandoli indietro, prima che si mettano nei guai. La nostra intelligence sicuramente ha le antenne per sapere quali zone e in quale momento diventano poco sicure. A quel punto, potrebbero scattare un divieto a partire e un obbligo a rientrare sì, anche forzoso. Questi sono pensieri scabrosi per tante menti evolute e superiori. Quelle che distinguono tra chi va in vacanza o per lavoro e chi invece aiuta gli altri, come se chi porta soldi per turismo non lo facesse. Dei marò che scortano una nave, con stipendio e famiglia, manco si discute: pollice verso. Ciò che conta è l'ideale, da sventolare in una bandiera rigorosamente arcobaleno, ora che il rosso non va più tanto, dopo che Putin e Xi Jinping hanno fatto confusione. Se poi si traduce in un fatto cruento diventa pure l'occasione di trasformare il volontario da disgraziato e, diciamolo, un po' incosciente in un eroe, sperando che non arrivi anche al martirio.

No, limitare queste tristi vicende, quando troppo spericolate, attraverso divieti preventivi, non intaccherebbe la libertà personale. Non più di tanti divieti e obblighi di cui è costellata la nostra vita. Non possiamo girare in moto senza casco. Non possiamo usare armi, se non sotto stretti controlli. Non possiamo nuotare in spiaggia se il mare è mosso. Eppure ce ne resta ancora tantissima, di libertà, spesso più di quanta riusciamo ad usare e apprezzare, come pure di occasioni per fare del bene. Magari dietro casa, aiutando un disabile o un anziano, senza urtare gli affetti e mettere a rischio la propria vita. Certo, in queste azioni mancherebbe il cattivo, mancherebbe l'ingiustizia da cui liberare gli oppressi.

In pratica, non ci sarebbe alcun ideale per cui organizzare un corteo.

Però di cortei e di bandiere c'è bisogno, per ricordare gli anni d'oro dell'adolescenza. Ben vengano allora le Silvie, e non ce ne vogliano se la pelle è la loro e non la nostra.

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