di Daniela Missaglia
L' articolo di Gianpaolo Iacobini, apparso ieri su Il Giornale in merito all'ordinanza emessa da un Giudice civile del Tribunale di Catania in tema di affidamento e collocamento dei figli minori, «stabilendo che una volta dissolto il vincolo coniugale i figli possano andare a vivere anche coi padri, e non per forza con le madri», racconta di un provvedimento che è già stato applicato. Una moltitudine di padri separati, infatti, hanno ottenuto, avendolo chiesto, di poter stare in via prevalente con i figli minori, a discapito delle madri.
Sono molti anni che conseguo risultati di questo tipo, semplicemente facendo applicare la legge in vigore: una legge che non distingue fra padre e madre, privilegiando quest'ultima rispetto al primo, ma usa il termine «genitore», premiando non già l'appartenenza ad un genere bensì la sua individuale adeguatezza ad esercitare il ruolo.
D'altra parte il bene da tutelare, in qualsiasi aula di giustizia, è l'interesse del minore e questo si realizza individuando il genitore più accudente e più empatico, non necessariamente la madre.
Non è un caso che l'ordinanza del Tribunale di Catania sia stata emessa a seguito di un approfondimento peritale per scandagliare il nucleo familiare: in ogni Tribunale o Corte d'Appello, di fronte a domande di affido e collocamento contrapposte di due genitori, sono i giudici per primi a privilegiare l'interesse del minore filtrando la propria decisione attraverso la scrupolosa verifica dell'adeguatezza genitoriale, ovvero attraverso l'audizione dei minori stessi.
Audizione significa «ascoltare il minore» e il giudice è obbligato a farlo quando i figli contesi siano maggiori di dodici anni o comunque capaci di discernimento. Nessuna «breccia», pertanto, è stata aperta in quel di Catania nella giurisprudenza consolidata, nemmeno in quella della Corte di Cassazione che si è sempre sgolata per affermare l'interesse del minore quale unica guida per orientare i giudici nelle decisioni in caso di conflitti familiari.
Il vero dramma, a mio avviso, non è un presunto pregiudizio dei Giudici verso i padri, ma la lunghezza elefantiaca con cui vengono definiti i contenziosi familiari in alcuni Tribunali italiani, senza distinzione geografica, con procedimenti che si incagliano nelle secche di rinvii lunghissimi o decisioni meditate dai giudici per mesi, se non per anni.
Lungaggini, deleterie e fatali, che portano i figli contesi a essere oggetto di manovre alienative e odiose strumentalizzazioni.I padri non sono vittime sacrificali ma hanno i loro diritti ed è giusto che li esercitino. Nessuno vince o perde. L'obiettivo è sempre quello di tutelare i figli, realizzando il loro migliore interesse.
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