La chiamavano rivoluzione dei gelsomini e sbocciò proprio in Tunisia tra la fine del 2010 e gli inizi di quel fatidico 2011. Ma con il senno di poi è stata il prologo di una rapida ed inarrestabile discesa all'inferno. L'inferno che oggi divora Libia, Siria ed Iraq ed ha risparmiato l'Egitto soltanto grazie all'azione decisa - quanto spregiudicata - del generale-presidente Abdel Fattah Al Sisi. La Tunisia, nonostante il sanguinoso attentato di ieri, nonostante un'inquietante e dilagante presenza del jihadismo terrorista sembra ancora potersi salvare.
Ma non può certo dirsi immune dai germi della pandemia terroristica figlia di quelle primavera arabe germogliate e sviluppatesi nel suo seno. Anche perché il ritorno al potere di due fedelissimi dell'ex regime di Ben Ali come l'87enne Beij Caid Essebsi - eletto presidente lo scorso dicembre - e del 65enne Habib Essid, nominato premier a febbraio, non bastano a sanare i danni causati dagli esecutivi guidati tra il 2011 e il 2014 dai Fratelli Musulmani di Ennahda. Esecutivi che - oltre a bloccare turismo e commerci trascinando il paese sull'orlo della bancarotta - varano quell'amnistia responsabile, nel 2011, del ritorno in libertà di oltre 1200 integralisti musulmani, tra cui 300 veterani dell'Afghanistan. Tra quei veterani c'è anche l'emiro Saif Allah Ben Hassine alias Abu Ayad ovvero il fondatore del Gruppo Combattente, l'organizzazione a cui appartengono i due tunisini di Bruxelles mandati a uccidere - alla vigilia dell'11 settembre 2001 - il comandante afghano Ahmad Sha Massoud. Oggi lo stesso Saif Allah Ben Hassine alias Abu Ayad guida Ansar Sharia, l'organizzazione terroristica sospettata di aver messo a segno, d'intesa con lo Stato Islamico, lo spietato attacco al museo del Bardo.
Un'intesa forgiata in quella Libia dove Abu Ayad è latitante da ormai tre anni e da dove provengono le partite di armi e le munizioni che alimentano il versante tunisino dell'insurrezione jihadista. Ma le storie di Abu Ayad e dei suoi seguaci altro non sono se non l'immagine in scala ridotta di una pandemia terrorista che dalla Tunisia attraversa l'intero Maghreb, minaccia l'Egitto, strangola Iraq e Siria e garantisce saldi legami con le cellule alqaidiste del Mali, con il gruppo dei Boko Haram in Nigeria e le varie fazioni degli Sheebab in Somalia. Una pandemia che dopo aver rimescolato nomi e sigle promette, esattamente come successe con Al Qaida in Afghanistan, di riunificarsi e coalizzarsi sotto le bandiere nere del Califfato. Non a caso sotto quelle bandiere militano oggi circa duemila dei tremila tunisini migrati sui fronti siriani del jihadismo combattente. Non a caso le partite di armi ritrovate nelle ultime settimane in vari covi di Ansar Sharia e altre organizzazioni armate jihadiste tunisine arrivano sempre e solo da una Libia diventata, grazie agli arsenali di Gheddafi, la santa barbara e l'armeria del terrorismo internazionale.
Un'armeria che alimenta le bande attive nel Sinai egiziano, contribuisce a garantire le forniture di esplosivo ai gruppi terroristi del Cairo, mantiene grazie a Qatar e alla Turchia di Erdogan solidi rapporti non solo con i gruppi siriani, ma anche con Raqqa e Mosul ovvero le due capitali dello Stato Islamico. Stretta in questa morsa anche la Tunisia rischia insomma di sprofondare in quell'inferno che divora il Maghreb e il Medio Oriente e le rende zone sempre più inaccessibile per gli Occidentali.
Ma una degenerazione della situazione tunisina regalerebbe ancor più forza ai proclami di quello Stato Islamico che da qualche tempo alimenta le paure della nostra opinione pubblica
promettendo una risalita verso Roma. A quel punto le bandiere nere sventolerebbero sulla rocca di un antica nemica chiamata Cartagine. E il braccio di mare che ci separa dall'orrore diventerebbe insopportabilmente stretto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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