Arringa di Trump. E De Niro lo accusa

Il tycoon: "Usa in pericolo". La star (pro Biden) fuori dal tribunale: "Se vince è finita"

Arringa di Trump. E De Niro lo accusa
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Il più cinematografico dei quattro casi penali nei quali è coinvolto Donald Trump si sta confermando tale. Nell'aula del tribunale di Manhattan dove si decide il destino dell'ex presidente e candidato alla Casa Bianca e (forse) quello delle elezioni di novembre, si è consumato il penultimo atto di un appassionante show che va avanti da cinque settimane. Difesa e accusa si sono sfidate nel duello decisivo per conquistare le menti dei dodici giurati, chiamati a prendere la storica decisione: colpevole o non colpevole. Fuori dall'aula, la Hollywood in carne e ossa, impersonata da un infervorato Robert De Niro. L'attore, volto noto dalla campagna di Biden (è comparso in uno spot la settimana scorsa), si è messo a sparare bordate contro il tycoon davanti a reporter e fotografi. «È un imbroglione. Donald Trump non vuole distruggere solo questa città, ma il Paese e alla fine il mondo», ha detto. Poco distante, il popolo «Maga» di Trump lo ricopriva di insulti, mentre il portavoce della campagna del tycoon, Steven Cheung, rilanciava l'accusa di «processo politico». Dentro l'aula, ci si concentrava sui fatti e sulla loro interpretazione. «Gloat», ovvero «greatest liar of all time», il più grande bugiardo di tutti i tempi, era l'acronimo coniato da Tedd Blanche, l'avvocato a capo del Team Trump, per definire Michael Cohen, l'ex avvocato tuttofare del tycoon, caduto in disgrazia e diventato suo grande accusatore. Tre ore di arringa per demolirne la credibilità agli occhi della giuria. Compito non impossibile, viste la passata condanna per falsa testimonianza di Cohen e le contraddizioni emerse anche durante il dibattimento. Secondo l'accusa, Cohen col via libera di Trump pagò 130mila dollari alla pornostar Stormy Daniels per comprarne il silenzio alla vigila delle elezioni 2016, su un presunto incontro sessuale col tycoon avvenuto un decennio prima. Falso, secondo Blanche. «La decisione fu di Cohen, che voleva ingraziarsi Trump». E poi, la storia del presunto flirt tra Daniels e Trump era già nota nel 2011, venne ritirata fuori per estorcere soldi al tycoon. Ancora l'accusa: col consenso di Trump, Cohen venne ricompensato con 420mila dollari, inseriti illecitamente nella contabilità della Trump Organization come «spese legali». Falso, ha ribattuto Blanche. Trump all'epoca era già alla Casa Bianca e non si curava della sua azienda. Poi, l'accusa principale: lo schema Stormy Daniels faceva parte di una cospirazione per alterare il voto 2016, nascondendo agli elettori il passato discutibile del tycoon. «Ogni elezione in America è una cospirazione», la replica di Blanche. In definitiva, ha chiesto l'avvocato, attenetevi alle prove, «questo non è un referendum su Trump». L'ex presidente, che ha seguito passo passo le parole del suo difensore, annuiva. È toccato poi a Joshua Steinglass, l'avvocato dell'accusa, smontare gli eventuali dubbi instillati da Blanche nella testa dei giurati. Lo ha fatto puntando sulla presunta alterazione del voto 2016 e in parte rinunciando a ripuntellare la credibilità di Cohen.

«Questo caso ha a che fare con una cospirazione e un insabbiamento, non avete bisogno di Michael Cohen per provarlo», questo «non è un processo a Michael Cohen, ma a Trump», ha detto guardando la giuria. Spetta a questi dodici newyorchesi, ora, decidere «al di là di ogni ragionevole dubbio» il futuro di Donald Trump.

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