Non prendiamola a cuor leggero. Se il Segretario di Stato Antony Blinken sceglie Roma e un incontro con Luigi Di Maio per annunciare una nuova fase della strategia anti-Isis significa ritrovarci protagonisti di una guerra pronta a riaccendersi dall'Iraq al Sahel e - complici i flussi migratori - nelle nostre città. Uno scenario sottoscritto dallo stesso ministro degli Esteri pronto a proporre «una road map per scongiurare la proliferazione delle cellule terroristiche» ricordando però che non si può «smettere di combattere l'Isis in Iraq e Siria». Ma più sorprendente della disinvoltura dell'ex-leader a 5 Stelle nell'allinearsi alle richieste di impegno militare è il suo dietro-front sulla Cina. Quasi dimentico di aver firmato un Memorandum sulla Via della Seta che gli americani vogliono veder neutralizzato, Di Maio assicura che i rapporti commerciali con la Cina «non vanno a interferire con le relazioni che noi abbiamo con Usa e Nato». Archiviata la Via della Seta l'Italia deve però affrontare gli impervi sentieri della nuova guerra all'Isis. Perchè - come ci spiega il Di Maio trasformatosi nel ventriloquo di Blinken - «L'Isis è stato sconfitto sul piano territoriale nel marzo 2019, ma per quanto depotenziato continua a rappresentare una minaccia».
Per capire come i nuovi scnari ci trasformino non solo in protagonisti, ma anche in possibili bersagli, basta considerare la nostra presenza militare in Iraq e nel Sahel. I mille soldati italiani dispiegati a Baghdad e dintorni rappresentano per gli Usa la principale forza alleata. Una forza che oltre ad addestrare le forze di sicurezza locali le affianca in molte operazioni anti-terrorismo. Questo ci espone inevitabilmente al rischio di diventare l'obbiettivo più evidente dopo gli americani. Ma nell'era del Califfato potevamo contare su un'alleanza di fatto con le milizie sciite controllate dai pasdaran iraniani. Oggi non più. Mentre l'Isis resta in fase di riorganizzazione, iraniani e milizie sciite rapappresentano oggi la principale minaccia per gli americani e, inevitabilmente, per tutti i loro alleati. Se la partita irachena è densa d'incognite quella del Sahel non è più semplice. Lì 200 uomini delle nostre forze speciali stanno terminando l'allestimento di un contingente, forte di una ventina di blindati e otto elicotteri, che garantirà l'addestramento e il coordinamento delle forze anti terrorismo di Mali, Niger e Burkina nell'ambito dell'operazione europea Takuba.
In pochi mesi la missione europea ha già collezionato una ventina di scontri a fuoco con i vari gruppi jihadisti presenti nell'«area dei tre confini» (Mali, Niger Burkina Faso). E Macron ha approfittato del dispiegamento europeo per annunciare il ritiro di gran parte dei 5mila uomini schierati in un Sahel dove Parigi ha perso, dal 2013 ad oggi, 55 uomini e il Pentagono si prepara a tagliare oltre mille militari.
L'Africa nord-occidentale è pronta dunque a diventare un «affare» tutto europeo. Una prospettiva sottoscritta dallo stesso di Di Maio quando ricorda che «proteggere il Sahel significa proteggere la sicurezza dell'Europa». Per capirlo basta una cartina. L'avanzata jihadista - favorita da corruzione, povertà e desertificazione - attanaglia Libia, Algeria e Tunisia e punta inesorabilmente, come già successo a Sirte, a quelle coste del Mediterraneo dove i flussi migratori sono un comodo ponte per l'Europa. In questo scenario gli Usa, concentrati nello scontro con Pechino, richiamano noi europei alle nostre responsabilità.
E noi? Ieri di Maio ha cercato di smussare il profilo militare degli impegni assunti abbozzando un «Gruppo di Lavoro che valorizzi al meglio la partecipazione dei Paesi africani».
Un progetto basato su investimenti di lungo periodo destinati a disinnescare la predicazione jihadista. Ma anche una foglia di fico per un leader dei 5 Stelle costretto a sottoscrivere impegni dove la componente militare resta, per ora, il fattore determinante.
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