"Beato chi cerca giustizia perché sarà giustiziato..."

Ex giornalista del "Manifesto" lancia un sito per tenere sotto tiro i magistrati. "Fui il primo al mondo a venir querelato da Di Pietro e dal pool Mani pulite"

"Beato chi cerca giustizia perché sarà giustiziato..."

Nonostante le generalità da boss mafioso italoamericano, peraltro conformi al luogo di nascita (New Haven, Connecticut), Frank Cimini è riuscito a vivere per 36 anni a piede libero all'interno del Palazzo di giustizia di Milano, esercitandovi l'arte di cronista giudiziario. Il prolungato contatto con i magistrati lo ha indotto a coniare una massima su calco del Discorso della Montagna, il che è sorprendente, trattandosi di un ateo: «Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato». Forte di questo convincimento, ha fondato su Internet un seguitissimo blog dal titolo coerente, Giustiziami.it, in cui la sigla automobilistica del capoluogo lombardo trasforma il potere del diritto in un imperativo robespierriano. Nell'avventura ha coinvolto Manuela D'Alessandro, che da otto anni batte il tribunale per conto dell'agenzia Italia: «Bravissima. Insieme con Jari Pilati, collega della Rai, la mia più degna erede. Eppure è ancora precaria, l'Agi non si decide ad assumerla con regolare contratto».

Giustiziami.it è cliccatissimo da quando ha narrato la guerra fra il procuratore generale Edmondo Bruti Liberati e il pm Alfredo Robledo, meritandosi una menzione speciale del premio Guido Vergani. Lo scoop più sapido servito di recente riguarda il processo iniziato il 19 giugno a carico di Selvaggia Lucarelli, la blogger transitata dalle pagine di Libero a quelle del Fatto Quotidiano, ribattezzato Manette Daily da Cimini. Una brutta storia che vede alla sbarra anche la giornalista Guia Soncini e Gianluca Neri, alias Macchianera, curatore dell'omonimo blog, e che sulla stampa sarebbe passata sotto silenzio se Giustiziami.it non avesse pubblicato sul Web capi d'imputazione e retroscena. Secondo l'accusa, ci sarebbero in ballo password violate e accessi abusivi alle caselle di posta elettronica di Mara Venier, Sandra Bullock, Scarlett Johansson, Federica Fontana e altre star, per conseguire «un profitto consistente nella vendita di fotografie e di informazioni o conversazioni personali» o «comunque al fine di arrecare danno a Elisabetta Canalis».

Irrimediabilmente in preda alla sindrome di Stoccolma, invece di godersi la pensione agguantata dopo un tormentato percorso professionale, Cimini continua a frequentare il fascistissimo tempio razionalista in corso di Porta Romana, eretto negli anni Trenta da Marcello Piacentini, l'architetto prediletto dal Duce. Del primo giorno in cui vi mise piede, ricorda la parola d'ordine (ancor oggi richiesta in sala stampa a tutti, uomini e donne indistintamente) coniata da Annibale Carenzo, il decano dei cronisti di giudiziaria, che ha lavorato una vita per l'Ansa e che a 82 anni ancora bazzica il tribunale dal lunedì al venerdì: «Come ce l'hai?». La risposta di rito fu purtroppo usurpata da Umberto Bossi in un comizio pronunciato nel febbraio 1991 a Pieve Emanuele: «La Lega ce l'ha duro». Ciò consentì allo sfrontato Cimini di chiedere allo stesso Bossi, reduce da un interrogatorio sulle tangenti Enimont: «Ma fra lei e Antonio Di Pietro, chi ce l'ha più duro?». La risposta del segretario leghista, madido di sudore, fu: «Ce l'abbiamo duro uguale».

Ecco, se c'è una benemerenza di cui Frank Cimini va orgoglioso è quella di essere stato il primo giornalista al mondo a venir querelato dal pubblico ministero molisano e dall'intero pool di Mani pulite, nelle persone di Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D'Ambrosio, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. «Era il 28 aprile 1993. Avevo scritto che Cesare Romiti non era stato arrestato perché i manager della Fiat si erano accordati con i magistrati per non finire in galera. Il pool reagì con causa civile e richiesta di danni: 400 milioni di lire. Vinse in primo grado. L'astuto Di Pietro preferì incassare un adeguato indennizzo dal mio editore. I suoi colleghi persero in appello. Come sia finita in Cassazione, non lo so».

Come finì dal Connecticut a Milano?

«Mio nonno Francesco andò negli Stati Uniti a estrarre carbone. Nel 1930 mio padre Luigi emigrò a sua volta da Minori, costiera amalfitana, a New Haven, per fare il parrucchiere. Nel 1952 tornò al paesello e conobbe Trofimena. Si sposarono e partirono per gli Usa, dove l'anno dopo nacqui io. Rimanemmo là fino al 1959, quando papà rientrò per sempre in patria. Nel 1975, con 70.000 lire in tasca, salii a Milano perché avevo vinto un concorso nelle Ferrovie».

Qualifica?

«Manovale. Ma, più che per i treni, stravedevo per i giornali. Ero sempre nella redazione del Manifesto, in via Valtellina. Alla fine il povero Walter Tobagi, che era mio amico, mi suggerì di fare causa. Vinsi e fui liquidato con 400.000 lire al mese per due anni».

Stipendiato per non lavorare.

«Militando nella sinistra extraparlamentare, cominciai a occuparmi di carceri. Entrai in Soccorso rosso. Dirigevo Controinformazione. Dopo l'arresto del responsabile Emilio Vesce, prestai anche la firma ad Autonomia, la testata del gruppo padovano di Toni Negri».

Ma nei giornali veri come ci arrivò?

«Con una sostituzione estiva di due mesi al Gazzettino di Venezia, diretto dal democristiano Gianni Crovato. E poi con un contratto come corrispondente da Milano per l'Aga, l'agenzia di stampa legata a Confindustria».

Bella serpe in seno, si sono allevati.

«Scopro la giudiziaria grazie a Marco Borsa, che mi assume nel neonato Italia Oggi. Primo scoop: un paginone dedicato a ex militanti di Lotta continua che aprivano locali sui Navigli, tipo Le Scimmie, pagando in nero i dipendenti. Pasquale Nonno nel 1987 mi assume al Mattino di Napoli, dove rimango, con base a Milano, fino al 2012».

Il suo barbone è anarchico o cheguevariano?

«Tutt'e due. Non lo taglio dal 1986».

Come manovale prestato al giornalismo che studi ha avuto?

«Ho abbandonato il liceo scientifico in quarta. Per iscrivermi all'albo ho dovuto sostenere l'esame di cultura generale. E dire che Di Pietro è meno intelligente di me. Stiamo parlando di un arrampicatore sociale che s'è trovato al posto giusto nel momento giusto. Ambiva a far carriera ed è stato usato dalla sua corporazione per accontentare le masse, vogliose di vedere in prigione i politici ladri. La magistratura ne ha approfittato per prendersi il potere. Dopodiché, Di Pietro si è candidato guardacaso nell'unico partito uscito indenne dalle sue indagini. I magistrati non sono meglio dei politici. Anzi, la mia personale opinione, dopo averli visti all'opera, è che siano molto peggio».

Se ho ben capito, secondo lei certa magistratura non sarebbe faziosa per pregiudizio politico bensì per avidità di potere.

«Esatto. Non c'entrano né le toghe rosse né l'ideologia. I magistrati puntano solo ad avere un potere superiore a quello dei parlamentari. Per conquistarlo, hanno ottenuto lo stravolgimento dello stato di diritto con la legge sui pentiti, una vergogna che ha esteso i suoi effetti perversi dai processi di mafia a quelli politici. Persino Alfredo Rocco, guardasigilli del governo Mussolini e autore del codice penale tuttora vigente, era contrario alle leggi premiali perché sosteneva che non bisogna favorire la delazione nemmeno fra scellerati. Che poi 'sti pentiti sono furbissimi. Leggono i giornali, guardano la tv, capiscono al volo ciò di cui i magistrati hanno bisogno e gli scodellano su un piatto d'argento che dietro le stragi c'erano Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri».

Ha seguito tutte le traversie giudiziarie del Cavaliere?

«Fin dai tempi della contesa con Carlo De Benedetti per la Mondadori. Avevo chiesto che fosse affidato in prova ai servizi sociali presso il nostro sito. Almeno in sala stampa ci saremmo divertiti a parlare di figa. Ma lui ha preferito andare dai vecchietti».

Dovrebbe moderare il linguaggio.

«È lo stesso invito che mi rivolse Bruti Liberati, sorridendo, in giorno in cui gli dissi che stava processando Berlusconi per un pelo di quella cosa lì».

Ha un buon rapporto con il procuratore capo di Milano?

«Lo conosco da quando simpatizzava per Il Manifesto. Però non mi ha invitato alla festa di compleanno nel giardino di casa sua, dove c'era solo la metà dei Pm, e senza coniugi, perché tutti non ci stavano. Si è bevuto benissimo, mi dicono».

Giustiziami.it descrive il Palazzo di giustizia come un lupanare.

«Racconto ciò che ho visto. Come in tutti i luoghi di sofferenza, in tribunale si tromba. Anche negli ospedali, sa?».

So, so.

«C'era un collega che tutti i pomeriggi fornicava nella cabina di regia della postazione Rai in sala stampa. E quante chiavate in camera di consiglio, dove il giudice presidente, il giudice a latere e i sei giurati popolari hanno a disposizione le brande per quei processi in cui la sentenza va per le lunghe».

Non starà romanzando?

«Potrei farle i nomi di un presidente che copulò in camera di consiglio con la sua giudice a latere, ma a che servirebbe? Mica li può pubblicare. È accaduto anche fra due giudici, uomo e donna, in un processo di primo grado a Berlusconi. Non lo dica all'interessato».

E lei?

«Ho sempre resistito alle tentazioni, a cominciare da quella per una Pm dai capelli ramati che anni fa, in Sardegna, ebbi la fortuna di vedere in bikini. Proprio una bella topa».

Qui finisce con una querela.

«Se usa l'imperfetto, scrivendo che “era” una bella topa, può giurarci».

Una pagina del sito s'intitola Camera di coniglio anziché di consiglio.

«Ci piace lo sberleffo. Ma i contenuti sono seri. Siamo stati gli unici a scrivere che la Procura ha applicato una moratoria sull'Expo, con tanti saluti all'esercizio obbligatorio dell'azione penale. Eppure si tratta di un'inchiesta ben più rilevante di Mafia capitale. È evidente che, a Expo in corso, i magistrati hanno preferito astenersi per carità di patria in base a una valutazione di tipo politico».

Che cosa glielo fa dire?

«Non lo dico io. Se lo dicono fra di loro. Di recente la Procura di Brescia ha prosciolto Bruti Liberati per aver archiviato l'esposto di un esponente della Lista Bonino-Pannella, scrivendo che “alcune remore del procuratore appaiono caratterizzate da valutazioni di natura squisitamente politica”. Più chiaro di così».

Esiste una categoria che abbia più potere dei magistrati?

«No, neppure l'alta finanza, perché loro sono gli unici che possono sbatterti in galera e tenertici a vita. Usano i codici come se fossero carta igienica. Colpa della sinistra, la quale da decenni pensa che il mondo debba cambiarlo la magistratura. Ma quando mai il diritto ha modellato la società? Tocca alla politica farlo. Invece la politica è assente. È un gravissimo deficit di democrazia».

Mi sembra puerile ritenere che le toghe spadroneggino solo in Italia.

«Infatti la giustizia ha i suoi problemi ovunque. Ma la politicizzazione che esiste da noi non ha paragoni in Occidente. Con l'aggravante che viene negata. Negli Stati Uniti i magistrati sono eletti, quindi rispondono al popolo. Ma qui a chi rendono conto, visto che sono assunti per concorso?».

Rimedi?

«Abolire l'obbligatorietà dell'azione penale e separare le carriere di pubblici ministeri e giudici. Campa cavallo».

L'avrà pure incontrato un magistrato simpatico, in tanti anni di lavoro.

«Antonio Bevere. Adesso è in Cassazione. A Milano invitava i cronisti a casa sua e ci cucinava pizza e pasta».

Che doti deve avere un cronista giudiziario?

«Deve pensare con la propria testa, essere autonomo dai magistrati. Oltre a separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, bisognerebbe separare quelle di magistrati e giornalisti, che spesso procedono di pari passo. Tant'è che i processi si celebrano prima sulla stampa che in tribunale».

Comoda la vita del cronista che può attingere ai faldoni della Procura.

«Basterebbe una riformina semplice semplice: se da una Procura escono carte che sono a disposizione della sola accusa, il magistrato titolare dell'indagine subisce un procedimento disciplinare davanti al Csm. E poi si dovrebbe proibire la pubblicazione dei nomi dei Pm sui giornali. Così cesserebbero le smanie di protagonismo di certe toghe».

Che cosa consiglia a un giovane agli esordi in questa professione?

«Di avercelo duro».

(767. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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