Biden chiama Donald. "Felice che stia bene. Indagine sugli 007". Ma è bufera sui dem

Il leader: "Non c'è spazio per la violenza". Il Gop accusa per la campagna d'odio

Biden chiama Donald. "Felice che stia bene. Indagine sugli 007". Ma è bufera sui dem
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La campagna elettorale dei Democratici, se possibile, si fa ancora più complicata. Se fino a sabato sera i Dem erano impantanati nel fango della guerra interna tra sinistra progressita (Ocasio-Cortez, Bernie Sanders) e le élite (Obama, Pelosi, Hollywood) sul futuro della candidatura di Joe Biden, ora si trovano a scalare una Cima Coppi. L'attentato a Donald Trump cambia totalmente lo scenario e costringe i Democratici a modificare (nuovamente) la loro strategia. Il coro di dichiarazioni di condanna della violenza e di solidarietà per il tycoon conta una lunga lista di voci, che comprende tutto lo Stato Maggiore e i ranghi del partito: dai leader del Congresso, Chuck Schumer e Hakeem Jeffres, a Barack Obama e Nancy Pelosi, giù giù fino semplici congressmen, governatori, sindaci. Perfino il procuratore di Manhattan, Alvin Bragg, l'uomo della condanna di Trump per la vicenda Stormy Daniels, è intervenuto con una dichiarazione: «I miei pensieri e le mie preghiere sono con l'ex presidente Trump e la sua famiglia».

La voce più autorevole, naturalmente, quella dell'anziano presidente. Dopo un primo comunicato diffuso nell'immediatezza dell'attentato, Biden si è presentato nella notte di sabato davanti ai giornalisti. «L'idea che ci sia violenza politica in America è semplicemente inaudita», ha detto, annunciando che «a breve» avrebbe chiamato il suo rivale. Non più «the other guy», l'appellativo usato, ma «Donald». La telefonata, ha fatto sapere la Casa Bianca, è stata «buona, breve e rispettosa». In precedenza, la campagna di Biden aveva annunciato la sospensione di tutta la «comunicazione» e il ritiro degli spot tv già prodotti e sul punto di essere trasmessi in Pennsylvania e altrove. Messaggi nei quali Trump veniva al solito descritto come un pericolo per la democrazia. Difficile continuare su questa strada, dopo l'attentato di Butler.

Un cambio di tono, quello dei Dem, che non è bastato a placare le accuse dei Repubblicani, che imputano proprio all'anti-trumpismo militante il clima di violenza che sta avvelenando la politica americana. «Bisogna abbassare i toni della retorica», ha detto lo speaker della Camera Mike Johnson, che ha poi puntato il dito contro lo stesso Biden, che la scorsa settimana aveva incitato i suoi sostenitori a smetterla di pensare alla sua età e a concentrarsi su Trump: «Bisogna metterlo nel mirino». Parole pesanti, al netto del linguaggio figurato, alla luce di quanto accaduto sabato sera. Poco importa, come stanno tentando di fare alcuni commentatori liberal, che le responsabilità del linguaggio violento siano di entrambi i fronti. È vero, i toni di Trump non sono certo stati gandhiani in questi anni - «Biden è corrotto, è il peggior presidente della Storia, vuole distruggere l'America» - ma la realtà è che la foto col volto sanguinante che ha fatto il giro del mondo è stata quella del tycoon, non di Biden. Eppure, per mesi il leader Dem aveva tentato di condurre una campagna tutta concentrata sui successi del suo primo mandato, senza mai commentare i guai giudiziari del tycoon. I sondaggi traballanti e la débacle nel dibattito tv di Atlanta lo avevano convinto ad ascoltare i consigli dei suoi strateghi e rimodulare il messaggio: Trump, Trump, e ancora Trump. Domenica, Biden è nuovamente intervenuto dalla Casa Bianca. «In America non c'è posto per questo tipo di violenza.

Questo è il momento dell'unità», ha detto, annunciando un rafforzamento delle misure a protezione di Trump e un'«indagine indipendente» sulla sicurezza al comizio di Butler. Poi, l'appello a non giungere a conclusioni affrettate sul movente dell'attentatore. È un nuovo cambio di passo, ma ormai potrebbe essere troppo tardi.

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