Tra la realtà dell'emergenza migratoria e la sterile querelle per stabilire se il copyright «dell'aiutiamoli a casa loro» sia di destra o di sinistra, c'è un mare di slogan. Dietro a quello della cooperazione internazionale, il capitolo degli aiuti ai Paesi d'origine dei migranti rivendicato ogni due per tre da Matteo Renzi come risultato del suo governo e come ricetta universale per fermare l'esodo, ci sono bilanci risicati e soldi spesi non per le finalità sbandierate dall'ex premier.
«Aiutarli a casa loro è un principio di buonsenso, non è né leghista né di sinistra - ha ribadito anche ieri Renzi dopo gli attacchi ricevuti per le assonanze dei suoi proclami con i toni del Carroccio - C'è un abisso tra noi e la Lega. Noi pensiamo sia fondamentale investire sulla cooperazione internazionale e lo abbiamo fatto». Sì. Ma sulla carta. Perché negli anni del suo governo una buona fetta di quelle risorse stanziate per migliorare le condizioni di vita nei territori di provenienza degli oltre 180mila tra profughi e migranti economici sbarcati in Italia solo l'anno scorso, in realtà non ha mai varcato le nostre frontiere. Altro che Niger, Sudan, Gambia. Rivelano i dati pubblicati dall'Ocse riferiti al 2016, che il 34% dei fondi destinati dall'Italia alla cooperazione internazionale non sia mai arrivato ai Paesi beneficiari. Una consistente fetta della torta «Aiuto pubblico allo sviluppo», è stata impiegata sul suolo italiano per la crisi migratoria sotto l'etichetta «rifugiati nel paese donatore», che raccoglie il budget per i rifugiati in Italia. Insomma, anziché aiutarli «là», li abbiamo aiutati «qua», con i soldi che dovevano entrare «a casa loro».
Un circolo vizioso dovuto alla necessità di far fronte a numeri da record. Così dei 4,8 miliardi di euro previsti nel 2016, ben 1,6 si sono dileguati nella voragine finanziaria dell'accoglienza, sono serviti per mantenere centri e strutture gestite dalle cooperative e per affrontare arrivi in costante aumento. Renzi ha ragione quando rivendica gli investimenti in cooperazione deliberati sotto il suo esecutivo, ma non sono serviti a disincentivare le partenze. Tra il 2015 e il 2016, quando il segretario dem era a Palazzo Chigi, i fondi sono aumentati del 20%, da 3,9 miliardi a 4,8, passando dallo 0,22% allo 0,26% del Pil, registrando un trend positivo sebbene ancora lontano dall'obiettivo fissato allo 0,7% del Pil di ogni Stato Ue entro il 2020. Ma è salita anche, e ben del 69%, la quota di denari che anziché raggiungere scuole, ospedali, villaggi, zone di povertà tramite i progetti delle organizzazioni non governative operanti in Africa, è rimasta qui a finanziare la costosa macchina dell'accoglienza. L'Italia è in buona compagnia, nella classifica Ocse, insieme ad Austria, Germania e Grecia, che con lo stesso sistema hanno dirottato una vasta porzione dei fondi dello sviluppo all'assistenza domestica dei rifugiati. Un meccanismo consentito da una clausola del regolamento Dac dell'Ue, che permette di conteggiare le spese per i profughi sotto la voce «aiuto allo sviluppo» se spesi entro l'anno del loro arrivo. E che ha fatto sì che nonostante gli annunci rimbalzati come un mantra a ogni vertice dei leader europei, a conti fatti le risorse ricevute effettivamente dalle zone epicentro delle migrazioni siano scese del 3,9% rispetto al 2015.
Nel complesso con lo stesso «trucco», la parte sottratta ai 142 miliardi stanziati da 22 Paesi nel 2016, supera oltre il 10%. Tanto che il segretario generale dell'Ocse Angel Gurría ha lanciato l'allarme: «Le nazioni principali dei donatori si sono impegnate a concentrarsi nuovamente sui paesi meno sviluppati. Ora è giunto il momento di trasformare questi impegni in azione.
Insieme, dobbiamo prestare molta attenzione a dove sta andando il denaro e ciò che viene incluso nell'aiuto estero». Ma i numeri degli sbarchi del 2017, 85mila persone da gennaio a oggi, non promettono un'inversione di rotta. Nemmeno quella degli slogan.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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