«Questa riforma è essenziale per il nostro Paese». Tenendo duro, trincerato dietro la «necessità» di tenere i conti in ordine, il governo di Elisabeth Borne si salva per soli 9 voti; tanto è mancato ieri alle opposizioni parlamentari francesi per raggiungere la maggioranza assoluta (287 deputati) e far saltare l'esecutivo, e con esso la contestata riforma delle pensioni.
La premier sembra avere comunque i giorni contati. Alla vigilia del voto si era già detto dimissionario il suo capo di gabinetto. Ma alla fine la mozione «transpartitica» del piccolo gruppo moderato Liot, l'unica con chance di passare in aula perché la meno connotata e aperta al dialogo fra le opposizioni, si è fermata a 278 voti nonostante l'appoggio dell'estrema sinistra, della destra lepenista e di alcuni neogollisti in crisi di identità.
Il ricorso all'articolo 49 comma 3 della Costituzione «non è l'invenzione di un dittatore», prova a difendersi Borne dai fischi in aula. Dai banchi della sinistra mélenchonista non smettono di gridare «Vergogna!». E per un intero pomeriggio tartassano il governo ed Emmanuel Macron. Nel mentre, le piazze francesi continuavano a far sentire il loro dissenso all'Eliseo, manifestando in tutto l'Esagono; e anche, soprattutto, a pochi passi dalla blindata Assemblée, con scontri e tensioni anche ieri con la polizia. Nella giornata della verità, per Macron e la Francia, l'esecutivo alla fine tiene, ma appare subito indebolito: mostra un capo in trincea (Borne) senza neppure le sue truppe a sostenerlo in aula. Infatti, per dare l'impressione plastica di non dare peso alle due mozioni di sfiducia, i ranghi della pattuglia macroniana ieri erano volutamenti sguarniti; tutti fuori dall'emiciclo, mentre le opposizioni inneggiavano allo scioglimento della Camera e al ritorno al voto. L'effetto visivo e televisivo è stato ancora più devastante quando sulla tribuna è salita Borne, agnello sacrificale auto-designato per affrontare la forzatura parlamentare con cui il governo e Macron (il cui mandato resta blindato per altri 4 anni) hanno scelto di varare la riforma delle pensioni senza sottoporla al voto dell'Assemblée.
Per il Rassemblement National parla la deputata e portavoce Laure Lavalette: «Borne non cerca compromessi, facciamola finita». Marine Le Pen segue dai banchi dell'Assemblée la seduta più drammatica dal 2019, l'anno dei gilet gialli. Ma alla fine anche la mozione del Rassemblement contro «una legge morta prima ancora di nascere», tuona Lavalette, cade nel vuoto: 97 voti. Lavalette cita Victor Hugo e il 21 maggio 1850, quando il filosofo e poeta «diceva da queste tribune che lo scetticismo è la carie dell'intelligenza». Poi l'appello a Macron: «Andiamo alla dissoluzione (dell'Assemblée, ndr), l'alternanza siamo noi, e siamo pronti». Aurore Bergé, capogruppo del partito del presidente della Repubblica, Renaissance (Rinascimento), condanna le mozioni che rischiano di «tenere il Paese in ostaggio». La prima che riuniva socialisti-verdi ed estrema sinistra sotto l'acronimo Nupes insieme ai moderati, cavalcava il refrain «il governo ha tradito il popolo». Fallita. La gauche grida allora che Macron «si è barricato nel palazzo e non gli interessa cosa accade nel Paese». Ma alla fine la mozione si arena. Governo salvo. Restano i manifestanti in piazza, raggiunti in serata da alcuni deputati della gauche. Si riparte giovedì, con lo sciopero indetto dei sindacati. Macron è pronto a prendere la parola. Oggi riceverà Borne all'Eliseo per decidere se sacrificarla o meno e dirlo ai francesi.
In un clima in cui le parole rischiano solo di fare più male della forzatura stessa, l'articolo 49.3, la super-blindatura, resta uno strappo. Anche gli studenti universitari, finora rimasti sul chi vive, hanno annunciato occupazioni. Ieri, la prima, nel campus di Tolbiac, dell'Università Parigi 1 Panthéon-Sorbonne. Borne rivendica invece una vittoria; anche se non è riuscita a costruire una maggioranza in aula. «L'odio non dovrebbe trovare posto nel dibattito parlamentare», insiste. Per Le Pen, «un nuovo premier non cambierà nulla, continuerà la politica di Macron».
E chiede, come Mélenchon e i sindacati, un referendum; già però scansato dall'Eliseo. Resta l'opzione della Corte costituzione, annunciata ieri, per capire se la legge avrà corso. O se almeno gli ermellini daranno ragione alle opposizioni.
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