Alvin Bragg non è un tipo che si intimidisce facilmente. Racconta di essersi visto puntare almeno sei volte una pistola contro quando era giovane, nella Harlem degli anni Ottanta, durante i quali il quartiere nero a Nord di Central Park era dominato da zombie strafatti di crack. Racconta anzi di avere studiato giurisprudenza proprio per contribuire alla difesa di quei diritti civili di cui la New York violenta della sua giovinezza aveva un concetto piuttosto labile.
Figuriamoci se un personaggio del genere può spaventarsi di fronte alle sparate da capopopolo di Donald Trump e di fronte a chi, da destra, lo accusa di avere incriminato l'ex presidente per la prima volta nella storia di Washinton per ragioni meramente politiche. Bragg, 49 anni, afroamericano, ha preso carta e penna e ha scritto a Jim Jordan, Bryan Steil e James Comer, i tre repubblicani presidenti di altrettante commissioni alla Camera che lo hanno attaccato, chiedendo la testimonianza del magistrato e di visionare i documenti della sua indagine sulle somme che Trump avrebbe pagato per comprare il silenzio della pornostar Stormy Daniels. Bragg ricorda ai tre che comportandosi in questo modo, acconciandosi a fare da megafono ai malumori dell'incriminato eccellente, tradiscono il loro ruolo istituzionale. «Come sapete l'ex presidente - scrive Bragg - ha diretto una dura invettiva contro di me e ha minacciato sui social media che il suo arresto o la sua incriminazione avrebbero causato morte e distruzione. Come presidenti di commissione avreste potuto usare la vostra statura politica per denunciare questi attacchi e chiedere il rispetto per la correttezza del nostro sistema giudiziario e per il lavoro imparziale del gran giurì. Invece voi e altri vostri colleghi avete scelto di collaborare con gli sforzi di Trump per diffamare e denigrare l'integrità» delle autorità e presentare «accuse infondate» sul fatto che l'inchiesta fosse «politicamente motivata».
Un duro attacco che rappresenta una mossa fondamentale nella partita più importante della carriera di Bragg. Il procuratore di Manhattan cerca di porre dei paletti per evitare che la pressione politica sulla sua inchiesta diventi un assedio personale. Per questo Bragg sogna che martedì, quando probabilmente Trump si consegnerà alla giustizia, tutto avvenga lontano dal clamore mediatico, perché l'opinione pubblica pensi a Trump come a un normale cittadino sotto processo e non come a un mostro o a un perseguitato. Bragg sa benissimo che questa speranza è vana, ma deve provare a mettere le cose in chiaro: questa non è un'inchiesta politica.
Negli Stati Uniti del resto i procuratori vengono eletti e devono rispondere del loro operato alla cittadinanza. Diventare il persecutore di Trump potrebbe non essere una buona idea per Bragg in vista di una possibile riconferma. Eletto nel 2021 come trentasettesimo procuratore di Manhattan, Bragg si è laureato in legge a Harvard, è stato in passato procuratore federale e assistente del procuratore generale di New York, ruolo rivestendo il quale si trovò già ad avere a che fare con il tycoon, gestendo una serie di cause civili contro la Trump Foundation.
E nel corso della campagna elettorale che lo condusse alla poltrona di capo della giustizia di Manhattan si era esplicitamente vantato di «sapere come affrontare» l'ex presidente. Bragg ora ha dato una svolta all'indagine zombie, uccisa e resuscitata varie volte, e che sembrava ormai su un binario morto. La sua grande occasione per diventare la bestia nera ufficiale di The Donald.
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