Unica grande forza di maggioranza assente al gran ballo organizzato da Carlo Calenda al Palazzo dei Congressi all'Eur a Roma, con il suo leader silente alle prese con i commi e le carte bollate della guerra interna, il M5s è la pecora nera della giornata che segna l'avvicinamento tra Calenda ed Enrico Letta. Se uno più uno fa due, la combinazione delle dichiarazioni dei capi del Pd e di Azione taglia fuori i grillini dal perimetro di un campo largo progressista che è sempre più fluido e dai contorni incerti. Letta lancia l'amo a Calenda e gli propone di governare insieme dopo il 2023, ma l'europarlamentare ed ex ministro ribadisce l'aut aut: o noi o loro. E il loro è rappresentato proprio dal partito guidato da Conte. «Non dialoghiamo e non accettiamo il confronto con M5s e Fdi». Conte - già definito dall'ex segretario Nicola Zingaretti come il punto di riferimento dei progressisti - viene buttato nel calderone dei «sovranisti e populisti» insieme a Giorgia Meloni. Per l'alleato dei dem Calenda i pentastellati hanno «inquinato la politica italiana» e sono «un disvalore per l'Italia». Quindi, insiste il leader di Azione: «Vincere insieme le politiche del 2023? Io a Letta dico che tutto questo è possibile ad una condizione che lui sa perfettamente: che non ci sia il M5s». È un veto limpido, che potrebbe sbarrare la strada anche alle alleanze a geometria variabile tipiche dello scenario proporzionale che si va delineando.
Il silenzio del Pd preoccupa un Movimento invischiato in una faida tra bande. Per chi è vicino a Luigi Di Maio la responsabilità di un'eventuale rottura del patto giallorosso sarebbe da attribuire al comportamento tenuto da Conte durante la partita del Quirinale. Ma anche i contiani cominciano a dubitare della tenuta di un'asse che sembrava blindata. Il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio ha già consigliato all'avvocato di Volturara di lasciar perdere Letta. Conte, in attesa delle decisioni dei giudici sulla sua leadership, tentenna e accarezza la tentazione di un braccio di ferro con Mario Draghi. Il M5s intanto procede in ordine sparso. Le comunali di giugno potrebbero essere un bagno di sangue. Sul territorio i referenti locali fanno autogestione. Alle elezioni del 13 marzo prossimo per la Città Metropolitana di Napoli, dopo una sfida tra dimaiani e fichiani, i Cinque Stelle andranno da soli con un logo diverso: Territori in Movimento. Meglio non rischiare ricorsi con lo Statuto congelato dai tribunali. A Como, dove si sceglierà il sindaco, il M5s correrà da solo. Dall'altro lato il centrosinistra riformista con Italia Viva e Azione. «Invece di discutere dei due mandati, bisognerebbe aumentare il consenso elettorale», denuncia un parlamentare stellato che ha il polso del territorio. Con lo Statuto sospeso, la paura di nuovi ricorsi e uno scontro non risolto tra Conte e Di Maio, alle amministrative il Movimento rischia di scomparire.
Perfino Goffredo Bettini, stratega Pd e amico di Conte, in un'intervista al Foglio tratteggia scenari di larghe intese con la Lega dopo le politiche. Per il presidente dei grillini solo una citazione alla fine: «La sua figura è un patrimonio da rispettare». Come se la sbornia giallorossa appartenesse ormai al passato.
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