Enrico Letta vuole superare il Jobs Act renziano, o ciò che ne rimane dopo le varie bocciature di parti del suo testo da parte della Consulta, e rilancia a sinistra il Partito Democratico archiviando l'eredità dell'ex premier e segretario, oggi leader di Italia Viva. Per farlo Letta sceglie una tribuna tutt'altro che neutrale: parla infatti con Il Manifesto, che nei mesi scorsi aveva difeso la coalizione del campo largo tra i dem, il Movimento Cinque Stelle e la Sinistra radicale, e sottolinea che "il nostro programma supera il Jobs Act sul modello di quanto fatto in Spagna contro il precariato. La stagione del blairismo è consegnata alla storia. In tutta Europa credo che siano rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico".
Letta sul tema del Jobs Act segue, nelle intenzioni, la visione degli alleati di coalizione, il leader di Sinistra italiana Nicola Frattoianni e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Frattoianni dal 2018 ha iniziato una campagna di critica alle componenti del Jobs Act legate ai licenziamenti senza causale, più volte censurate dalla Corte Costituzionale, Di Maio nel 2017 nel programma del Movimento Cinque Stelle per le elezioni politiche proponeva l'eliminazione totale della riforma introdotta da Renzi al governo tra il 2014 e il 2016 e il ripristino dell'Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
"Oggi un riformismo moderno deve dare soluzione a problemi come la richiesta di più protezione sociale, al grande tema delle dimissioni di massa post Covid, alla carica distruttrice di lavoro della rivoluzione digitale e delle delocalizzazioni. La sinistra o torna nei luoghi del conflitto o non è sinistra", ha aggiunto il segretario dem in una conversazione con il Corriere della Sera.
Ma a guardare il programma del Partito Democratico non appare alcuna presa di posizione esplicita sul superamento del Jobs Act: il Nazareno proponne tassazione agevolata per il secondo percettore di reddito di ogni famiglia, sostienne unn taglio totale dei contributi per le assunzioni a tempo indeterminato dei giovani fino ai 35 anni - senza però promuovere alcun discorso sulle coperture - e il rafforzamento dei controlli sul lavoro nero e sommerso. A queste misure, nelle intenzioni, si aggiunge la promozione dello smart working e la fine dei tirocini extra-curriculari.
Nessun discorso sul rapporto tra sicurezza del posto di lavoro e flessibilità, né una discussione su una riforma a tutto campo simile a quella promossa dal governo spagnolo di Pedro Sanchez: essa, come ricorda Il Fatto Quotidiano, prevede "la penalizzazione dei contratti ultracortos – quelli fino a sette giorni – per i quali il disincentivo è incentrato sull’aumento dei contributi previdenziali, l’eliminazione del contratto d’opera o servizio, fulcro di un sistema fraudolento in materia di contrattazione, il rafforzamento dei motivi necessari per giustificare il ricorso ad un contratto a tempo determinato. E poi ancora due elementi, la recuperata centralità del Convenio colectivo (il nostro Ccnl) le cui disposizioni non possono essere derogate dai contratti aziendali in tema di retribuzione e giornate lavorative, e l’intensificazione delle ispezioni".
Né, al contempo, si vede alcuna discussione sulla legittimazione di settori come la gig economy e l'economia dei microlavori del digitale su cui Letta si è detto pronto a intervenire e che nelle zone grigie del Jobs Act navigano nell'incertezza.
A parole Letta va incontro alle richieste degli alleati Di Maio e Frattoianni, ma senza andare fino in fondo nella critica al Jobs Act. Tanto che da Renzi è arrivata una risposta proprio su questo tema: "Enrico è ossessionato da noi. Oggi ha detto che lui, Di Maio e Fratoianni archivieranno Blair, dopo aver abolito la povertà con il reddito di cittadinanza. Chi gli vuole bene gli stia vicino", ha twittato il leader di Italia Viva. Il quale ha ragione sul fatto che Letta usi il richiamo alla sua eredità come base d'appoggio per rivendicare una diversità senza discontinuità, ma certamente con la visione del mercato del lavoro insita nel Jobs Act ha, retrospettivamente, contribuito a cagionare un problema all'economia italiana.
La costituzione repubblicana che orienta il Paese nato dal referendum del 2 giugno 1946 si apre con un principio chiaro: l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Lavoro precario, guardando i dati allarmanti che dobbiamo commentare. Ad aprile – secondo quanto rilevato dall’Istat – gli assunti con contratto a termine o a tutele crescenti hanno raggiunto quota 3 milioni 166mila. Per il numero degli occupati dipendenti a termine si tratta del dato più alto dal 1977, inizio delle serie storiche.
La catastrofe occupazionale in questo Paese continua. Possiamo pensare a rinascita, presunti nuovi boom economici, rilanci del Paese con queste caratteristiche del lavoro? Domanda obbligatoria. Matteo Renzi, col suo Jobs Act ha sdoganato il precariato per legge. Enrico Letta non vuole fare nulla per adattarlo al mondo che cambia. I suoi alleati di coalizione guardano al passato e non al futuro. Come su altre proposte, i due campi di centrosinistra guardano il dito e non la Luna. In questo caso, il fatto che il lavoro sia tassato come un bene di lusso per imprese e lavoratori è, in una prima analisi, il vero problema da risolvere.
Il centrosinistra delle tasse difficilmente, però, riuscirà a entrare in questa forma mentis: e attorno al Jobs Act e al lavoro si consumerà l'ennesima guerra tra bande che poco bene fa all'economia nazionale. Ciò che meno serve in una fase di volatilità e incertezza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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