Delle carceri non frega niente a nessuno.
Non frega niente ai politici, perché i carcerati non portano voti. Non frega a tutti noi che siamo fuori, perché pensiamo che chi sta dentro appartenga a una diversa specie umana. Non frega niente, purtroppo, anche a buona parte di chi, nello Stato, lavora nel sistema penitenziario, e che sa che è tutto uno schifo, ma sa anche che è tutto uno schifo da sempre e tutto uno schifo sempre resterà: quindi, perché darsi da fare per cambiare le cose? Nel sistema carcerario come si vedrà in questa mini inchiesta in due puntate l'obiettivo aziendale, il business objective come dicono quelli che parlano bene, è il mantenimento dello status quo. La vision e la mission, sempre per usare correttamente l'inglesorum, coincidono e si possono sintetizzare in una sola parola: immobilismo.
Occorre poi partire con un'altra premessa, per non confondere il lettore, e per non essere fraintesi. E cioè: la certezza della pena non va discussa. Chi sbaglia deve pagare e fino a ora l'umanità non ha ancora inventato un modo migliore che costruire prigioni per chiudervi dentro chi ha fatto del male al suo prossimo e più in generale chi ha violato la legge.
Non bisogna però dimenticare quello che deve sottolineo deve essere un postulato: la pena consiste nella privazione della libertà. Rigiro la frase per darle più efficacia: la privazione della libertà è la pena. Il codice penale prevede che il tale reato è punito con la reclusione da a. Con la reclusione: non con altro. Tenere i detenuti in celle schifose e sovraffollate, chiusi dentro 22 ore al giorno a non fare nulla, è una pena ulteriore, non prevista dal codice e tantomeno dalla Costituzione, la quale impone di tentare (almeno) di rieducare il reo.
Al lettore che obiettasse dicendo che ha a cuore la sicurezza, cercherò di dimostrare, in queste due puntate, che il detenuto maltrattato e abbandonato, quando esce, torna sicuramente a delinquere, ancora più incattivito; mentre alcune esperienze di lavoro vero in carcere fanno abbattere quasi del tutto la recidiva. Quindi, se non per un fattore di umanità ma per semplice desiderio di sicurezza, è opportuno che le carceri non diventino una fabbrica di delinquenti ancora più delinquenti di prima.
Cominciamo con le carceri minorili (nella prossima puntata parleremo dei maggiorenni). C'è un grande successo della serie tv Mare fuori. Ma a tanto interesse mediatico non corrisponde un interesse operativo. Quindi c'è un Mare fuori e una Realtà dentro.
Gli Ipm (Istituti penali per minorenni: le carceri, insomma) in Italia sono diciassette: Acireale, Airola, Bari, Bologna, Cagliari, Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Milano, Nisida, Palermo, Pontremoli (l'unico solo femminile), Potenza, Roma, Torino e Treviso.
Oggi in queste carceri sono rinchiusi poco più di 500 minori: è il numero più alto da oltre dieci anni. Gli ingressi in carcere sono in costante aumento: erano 835 nel 2021, sono diventati 1.143 nel 2023. Quest'ultima è la cifra più alta degli ultimi quindici anni. Gli operatori dicono che è la conseguenza del Decreto Caivano (in vigore dal 15 novembre 2023), che ha esteso l'applicazione della custodia cautelare in carcere: «Ho in cella - mi dice un direttore - un ragazzo che ha rubato una bicicletta». Altri sono dentro per oltraggio a pubblico ufficiale.
Un'altra causa del sovraffollamento è l'aumento dei minori non accompagnati, tutti stranieri, i quali non possono usufruire delle misure alternative alla pena come gli arresti domiciliari.
Delle diciassette carceri che abbiamo detto, quelle più popolose sono il Beccaria di Milano (72 detenuti di cui 46 stranieri) e Nisida, cioè Napoli (55, di cui 16 stranieri). Giusto per far capire al lettore, e al contribuente, quanto costa questo sistema, in genere ad ogni detenuto corrisponde almeno un agente di polizia penitenziaria. Secondo il rapporto Antigone del 2024, al Beccaria sono in servizio 71 guardie; a Treviso (capienza 12 posti, attualmente 19 detenuti) ci sono 35 agenti e due ispettori; a Pontremoli (capienza massima 17, attualmente una dozzina di ragazze detenute) ci sono 19 agenti ma l'organico sarebbe di 31, più un ispettore e un'ispettrice.
Nelle ultime settimane sono entrato in qualcuno di questi istituti e ho visitato una comunità, quella di don Claudio Burgio a Vimodrone (Milano). Le comunità sono una misura alternativa alla detenzione, lì i ragazzi non sono lasciati a marcire in cella: fanno attività, studiano, don Claudio ha addirittura allestito una sala di registrazione per gli aspiranti rapper. Ma le comunità sono poche. «Ho molti ragazzi che sarebbe meglio che fossero in una comunità», mi dice un altro direttore: «Ma nel mio territorio non ce ne sono abbastanza».
Perché questi ragazzi, poi, dovreste vederli. All'inizio si presentano in modo sostenuto, un po' da bulli: ma quando ci parli, vedi che sono bambini. «I ragazzi qui sono aspri fuori e dolci dentro, esattamente come i loro coetanei fuori», diceva don Domenico Ricca, il cappellano del Ferrante Aporti di Torino da poco scomparso: «I ragazzi non sono mai mostri. Sono adolescenti, e gli adolescenti non vanno lasciati a loro stessi, non vanno pensati troppo adulti, vanno trattati per l'età che hanno, e quindi come tali devono essere seguiti».
Le cose belle vengono fatte da uomini e donne di buona volontà. Ad esempio c'è chi sta portando nelle carceri una valigia piena di giochi di società: si chiama «La valigia di Marco e Anna» e quando i ragazzi vedono che quei giochi sono nuovi di zecca, comprati apposta per loro, stentano a credere. Non sono abituati a ricevere tanta attenzione. A Treviso hanno ringraziato con un grande disegno: una valigia dalla quale escono i loro sogni. Molti scrivono: riabbracciare i familiari. Altri che non vogliono più deludere la mamma. Altri sperano di diventare ricchi, o star della musica. Ma uno ha scritto una parola sola: serenità. E la serenità è un qualcosa che si desidera da vecchi, non da ragazzi. Il fatto che quel ragazzo la sogni vuol dire che la sua vita è stata difficile. Come quella di tutti questi ragazzi finiti dentro.
«Non esistono ragazzi cattivi», è scritto all'ingresso della comunità Kayros di don Burgio. Il quale non è un buonista: «Sono realista. So che non è facile. Ma qui non quantifichiamo il processo educativo. Non guardiamo ai numeri: quanti ne recuperiamo e quanti no. Non cerchiamo il risultato. Ma almeno tentiamo qualcosa che sia diverso da un carcere dove i ragazzi vengono riempiti di psicofarmaci».
Gli ho chiesto: «Lei è sicuro che chi delinque può cambiare?».
Mi ha risposto: «Sono sicuro di non essere autorizzato a dire che nessuno può cambiare».
(1. Continua)
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