Vent'anni di mischie furibonde, ora forse la svolta. La copertina del Fatto Quotidiano interpretava ieri il disagio di taluni ambienti davanti al cantiere aperto dal ministro della giustizia: «La svolta di Cartabia è quella di Berlusconi». Un riflesso quasi automatico: leggere le riforme messe sul tavolo con gli occhiali dell'eterno conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani, e quindi in definitiva fra il bene, sempre disegnato con tratti apocalittici, e il male.
Questo schema manicheo ha imprigionato il Paese e l'ha fatto regredire sul piano della civiltà giuridica, perché ogni passo in avanti veniva percepito come un favore a questo o a quello. Oggi, Marta Cartabia si appresta a cancellare la prescrizione senza tempo voluta dall'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede e tira fuori dalla naftalina la legge Pecorella, varata nel 2006 e poi messa fuori legge dalla Consulta. In caso di assoluzione - questo diceva in soldoni la Pecorella - il pm non può presentare appello. Una norma di buonsenso, almeno in generale, perché è difficile capire come si possa arrivare a condannare un imputato oltre ogni ragionevole dubbio se lo stesso è stato assolto in primo grado sulla base degli stessi elementi. La norma fu poi dichiarata incostituzionale nel 2006 perché alterava il rapporto fra accusa e difesa, ma quella era un'epoca in cui il partito dei giudici e le componenti più forcaiole del mondo della giustizia distribuivano patenti di legittimità, mettevano veti e facevano cadere pure i governi. Oggi, per prevenire possibili obiezioni, la norma potrebbe essere bilanciata riducendo il campo dell'appello anche per il difensore, con l'introduzione di vincoli e filtri. Si può discutere di tutto, naturalmente, ma se prevale uno spirito di collaborazione, allora una soluzione mediana, di compromesso, si può trovare.
Così è sul versante della prescrizione: la prescrizione, così come l'ha disegnata Bonafede, di fatto evapora dopo il verdetto di primo grado. È evidente che questo meccanismo può avere un senso in un sistema perfettamente funzionante in cui i successivi gradi di giudizio vengono affrontati con celerità. Ma nel pantano italiano, quello cui aveva promesso di porre rimedio il Conte 1, questo significa immolare gli indagati sull'altare di processi interminabili. Naturalmente, la strada da percorrere è ancora lunga e non sarà facile trovare una soluzione adeguata alla complessità dei problemi. Ma non è questo il punto. La verità è che oggi si può mettere mano a quel che prima era un tabù. Qualunque riforma entrava nel solito vortice: c'era una sorta di anatema, alcuni giornali lanciavano l'allarme, qualcuno arrivava a dire che era un gioco la libertà. Insomma, un crescendo di dichiarazioni drammatiche che finivano fatalmente per bloccare qualunque tentativo di aggiornamento.
Oggi Cartabia mette sul piatto le richieste dell'Europa e aggiunge che i miliardi del Recovery plan saranno vincolati alla riscrittura di norme che scricchiolano. Insomma, prendere o lasciare nella corsa alla modernizzazione del Paese. Si sono tratteggiate nel passato mille riforme, ma poi si finiva sempre lì, fra le bandiere delle opposte fazioni e il semaforo che diventava rosso nel momento decisivo. Oggi si torna a discutere a tutto campo: certi alibi non funzionano più, certe dinamiche non sono più attuali e insomma forse il Paese è pronto per intraprendere quel percorso che ci chiede con insistenza anche l'Europa.
Speriamo che i professori, gli accademici e gli esperti non siano fermati come è sempre accaduto in questi anni. Davvero, anche per la giustizia, come per tanti altri snodi nevralgici, siamo davanti a un'occasione irripetibile.
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