Il verdetto non c'è ancora, ma le polemiche avvelenano la vigilia. Oggi la Consulta dovrebbe emettere la sentenza e stabilire chi abbia ragione fra Matteo Renzi e la procura di Firenze. Tecnicamente, si chiama conflitto di attribuzione; in sostanza il leader di Italia viva sostiene che i pm del capoluogo toscano si siano allargati andando oltre i confini della legge nell'inchiesta Open. Insomma, sarebbero state violate le prerogative dell'ex premier che ha così convinto il Senato ad ingaggiare il braccio di ferro con la procura toscana davanti ai giudici della Corte costituzionale.
Ieri Repubblica nell'edizione on line sforna un pezzo che torna sulla vicenda e Renzi dà fuoco alle polveri: «L'articolo - si legge in una nota - è un maldestro tentativo di condizionare il dibattito della Corte costituzionale. Esprimo sconcerto per questo stile che non condivido e auguro un buon lavoro ai giudici della Consulta, la cui decisione è destinata a regolare i rapporti fra il Senato e l'autorità giudiziaria per i prossimi anni».
In effetti, la questione sul tappeto non è di poco conto e attiene in qualche modo al sempre conflittuale rapporto fra potere giudiziario e politico. Molti ritengono che da Tangentopoli in poi la magistratura abbia operato una vera e propria invasione di campo, spingendo sempre più nell'angolo gli eletti dal popolo. Ma nello specifico, la querelle sollevata da Palazzo Madama riguarda le prerogative di un parlamentare, già amputate a suo tempo da uno sciagurato intervento sull'articolo 68 della Costituzione.
Renzi si considera perseguitato dalla procura di Firenze e sottolinea che nel fascicolo dei pm sono entrate mail e chat coperte dal suo ruolo di parlamentare. In sostanza, la procura avrebbe dovuto chiedere al Senato l'acquisizione di quella documentazione, equiparabile alle conversazioni intercettate. Nello specifico, i pm Luca Turco e Antonino Nastasi avevano sequestrato non il cellulare di Renzi, ma quello di due imprenditori che chattavano con lui: Marco Carrai e Vincenzo Manes. In questo modo, avrebbero aggirato i paletti posti dalla Carta a tutela di deputati e senatori, mettendo le mani su molto materiale relativo a Renzi, utile o forse no per l'indagine, ma sicuramente suggestivo per quotidiani e televisioni.
Risultato: Renzi è finito nel registro degli indagati per finanziamento illecito e siamo arrivati all'udienza preliminare. Sempre in un clima tesissimo: «Io uscirò da questo processo con la fedina pulita - ha detto Renzi arrivando nei giorni scorsi a Palazzo di giustizia per un passaggio del procedimento - non sono sicuro che la stessa cosa avverrà per il pm Luca Turco. Noi siamo innocenti, il pm non lo so». Parole pesantissime, in un diluvio di ricorsi, controricorsi, sospetti e ruggini che va avanti da anni.
In questa guerra finisce anche la Consulta e la sua imminente decisione. Gira voce, come spesso capita in vista di decisioni molto importanti, che la discussione dentro il collegio sia assai accesa. E Renzi ritiene il pezzo di Repubblica proprio un messaggio per i giudici che oggi discuteranno il caso in una sorta di conclave.
Così la Corte prova a spegnere l'incendio: «In relazione ad alcune illazioni apparse oggi su organi di stampa, l'ufficio comunicazioni della Corte costituzionale precisa che esse sono totalmente destituite di fondamento». Oggi, la sentenza tanto attesa.
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