Houston abbiamo un problema: come interrompere la Via della Seta senza far infuriare Pechino? Come tagliare il cordone stretto al quale Giuseppe Conte ha legato l'Italia evitando le ritorsioni di un gigante capace di produrre da solo un terzo del Pil mondiale? Il Global Times, il tabloid pubblicato dal Quotidiano del Popolo, si è già fatto sentire: «Non è un cavallo di Troia, è un sentiero di collaborazione. L'Europa non deve essere chiusa e conservatrice, apra. Se Italia e Ue non colgono la Belt and Road, la globalizzazione in Occidente rimarrà indietro o addirittura regredirà». E ancora: «Roma non baratti benefici economici per accodarsi agli Usa». Il compito di Giorgia, appena tornata da Washington, ha i contorni di una mission impossible, eppure a Palazzo Chigi sono convinti di aver trovato la strada. Quale? Semplice: prima, organizziamo un viaggio nella Città Proibita «per chiarirsi di persona». Poi, «facciamo come Super Mario».
Quell'accordo, firmato nel 2019 dal governo gialloverde, con Roma unica capitale del G7 ad aderire all'intesa, a Draghi infatti non piaceva per niente. Così l'ex presidente della Bce aveva cominciato un progressivo sganciamento, abbastanza lento da scansare scontri e polemiche, ma anche piuttosto concreto. Un misto di fermezza e sorrisi, quanto bastava per arginare l'invasione. Un'operazione in due tappe. Uno, il rafforzamento di fatto dei controlli sugli investimenti di Xi in Italia. Due, il blocco di diverse acquisizioni da parte di aziende cinesi in campi strategici e della sicurezza, usando il golden power: ad esempio, fu l'aiuto diretto di Palazzo Chigi impedire la scalata a Pirelli.
Adesso la Meloni vuole seguire lo stesso percorso. Come? Per ora la premier «non vuole scoprire le carte» in questa partita a poker, forse la più importante del suo esecutivo in politica estera. Ma intanto prende tempo. «Ne abbiamo parlato con Biden - ha spiegato in un'intervista a Fox tv - Un'eventuale uscita dalla Via della Seta dovrà essere discussa con il governo di Pechino e nel Parlamento italiano». Niente strappi. «Prenderemo una decisione entro la fine di dicembre». Intanto il cerimoniale di Stato è al lavoro per concordare una visita della premier a Pechino in autunno. La Via della Seta prevede ben 29 accordi che coinvolgono 19 aziende pubbliche e dieci private: trasporti, energia, credito, navi, meccanica, farmaceutica, pure moda e turismo. È coinvolto insomma l'intero sistema industriale italiano. In ballo ci sono infrastrutture e iniziative comuni nelle nuove tecnologie. Il rischio è l'ingresso cinese nei gangli economici vitali del Paese. I Cinque stelle, e in parte la Lega, i partiti che all'epoca vollero la firma del memorandum, ora sono contrari alla marcia indietro. Tuttavia la scelta, dando retta a Guido Crosetto, è stata presa. «Aderire a Belt and road fu un atto scellerato compiuto dal governo Conte. Noi abbiamo venduto un carico di arance in Cina, loro in tre anni hanno triplicato le esportazioni». I numeri dell'osservatorio economico della Farnesina danno ragione al ministro della Difesa: dal 2019 l'export tricolore in Cina è passato da 13 a 16,4 miliardi, mentre quello di Pechino è schizzato da 31,7 a 57,5.
Una sproporzione evidente. E si torna al punto di partenza, come spiegarlo a Xi. «Dobbiamo uscire senza fare danni», dice ancora Crosetto. La chiave? Nel riconoscimento del doppio ruolo della Cina, «competitor ma anche partner».
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