Lo scorso 1° luglio, in occasione delle celebrazione dei cento anni della fondazione del partito comunista cinese, Xi Jinping manifestò l'intenzione di accelerare il progetto di riunificare le due Cine: quella comunista del continente e quella democratica e separatista di Taiwan. Definendo l'iniziativa «una missione storica e un impegno incrollabile», Xi nell'occasione auspicò una riunificazione pacifica basata sul principio che esiste una sola Cina, ma al tempo stesso lanciò la sua minaccia al governo separatista di Taiwan e alle forze straniere: «Non esiteremo a schiacciare qualsiasi complotto per l'indipendenza di Taiwan. Qualsiasi forza straniera che tenterà d'intromettersi dovrà scontrarsi con una grande muraglia d'acciaio». Per queste ragioni Pechino ieri ha ribadito la sua opposizione a ogni tipo di accordo di natura sovrana e ufficiale tra Paesi con cui ha stabilito relazioni diplomatiche e Taiwan, all'indomani della presentazione della richiesta di adesione alla Cptpp (Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership) da parte dell'isola su cui la Cina rivendica la sovranità.
Taiwan aveva presentato mercoledì la propria candidatura per entrare nell'accordo di libero scambio, precedendo di qualche giorno quella cinese. Con un tweet la presidente Tsai Ing-wen ha ribadito la volontà di adesione nell'ottica «del nostro impegno nel promuovere il libero scambio nell'Asia-Pacifico, a vantaggio dei popoli della regione e del mondo». Il Cptpp è un accordo di libero scambio tra undici Paesi (Nuova Zelanda, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Perù, Singapore e Vietnam). Facevano parte dell'intesa anche gli Stati Uniti ai tempi dell'amministrazione Obama e da giugno sono iniziati i negoziati per l'accesso della Gran Bretagna. Nato proprio con l'obiettivo di contenere la Cina, questo accordo commerciale prevede tra l'altro una massima attenzione alle tematiche ambientali e a quelle sul diritto del lavoro. L'ingresso di Taiwan nel Cptpp sta già generando fibrillazione tra le diplomazie di mezzo mondo, aprendo la strada a un nuovo conflitto che potrebbe non essere soltanto verbale.
I rapporti tra Pechino e Taipei sono complicati: Taiwan si considera uno Stato indipendente, mentre per la Cina l'isola è una provincia distaccata. Per questo, Pechino ha fatto sì che Taiwan venisse in alcuni casi esclusa da organismi internazionali. Ma Taipei non ci sta e si appella agli altri Paesi membri. La Cina punta al controllo di Taiwan per mantenere un accesso al Mar del Giappone, e quindi all'Oceano Pacifico settentrionale. Non solo, il maggior asset di Taipei, quell'industria dei microchip di cui sono clienti Apple e Google, fa gola a molti. C'è da domandarsi come reagirebbe Washington alla ventilata ipotesi d'invasione di Xi, soprattutto ora che Pechino potrebbe sfruttare il pretesto dell'iniziativa di Taiwan sul libero scambio.
A Biden probabilmente non interessa il controllo dell'isola, quanto contenere la politica di espansione della Cina in quell'area del Pacifico, che garantirebbe a Xi un predominio assai pericoloso nell'area. Con Hong Kong sempre più in ostaggio di Pechino, Taiwan, che si è sempre posta di traverso a qualsiasi tentativo di annessione, potrebbe addirittura sfruttare a proprio vantaggio questa escalation di tensione per rinsaldare la sua posizione a livello diplomatico, e ottenere un riconoscimento internazionale di forza democratica.
Siamo soltanto al fischio d'inizio di una partita molto lunga e che non lesinerà colpi di scena. Solo ieri la Cina ha mostrato i muscoli facendo volare una ventina di caccia sui cieli di Taiwan. Preludio di un'invasione? Xi sa benissimo che una mossa del genere provocherebbe un ulteriore isolamento, ma non sembra disposto, almeno per ora, a far ricorso al sostegno della diplomazia.
Il solo ad affrontare verbalmente la questione è stato il ministro degli Esteri Zhao Lijian, che commentando «con preoccupazione» l'accordo sottoscritto da Usa, Regno Unito e Australia per la fornitura a Canberra di sottomarini a propulsione nucleare, ha «chiesto» a Taiwan di «rimanere fuori» da accordi che «non sono di sua competenza».
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