La parola magica è «collegi». O, ad essere più precisi, «collegi uninominali». Che con la riforma del taglio dei parlamentari sono 147 alla Camera e 74 al Senato, perché la proporzione di tre ottavi non va fatta sui 400 deputati e 200 senatori complessivi, ma - visto che dodici parlamentari sono eletti nella circoscrizione estero - su 392 e 196. Sfumature, ci mancherebbe. Ma determinanti. Perché quei 221 uninominali di Camera e Senato stanno agitando non poco non solo i partiti, ma anche i singoli parlamentari. Che più sentono spirare i venti di una possibile crisi di governo e più stanno lì a ragionare e disquisire sui nuovi, ambitissimi collegi uninominali.
D'altra parte, sono un luogo sconosciuto per almeno due ragioni. La prima è che sono stati ridisegnati con il decreto legislativo 177 del 2020: ridotti di numero rispetto al passato e decisamente più ampi. Quindi, un nuovo campo di gioco rispetto alle politiche del 2018. La seconda è che sono ancora sub iudice, perché nel 2020 sono stati definiti sulla base del censimento del 2011, ma a dicembre andranno aggiornati con il censimento 2021. Ci saranno, insomma, dei ritocchi, che potrebbero essere meno importanti per le città ma più impegnativi per le regioni più ampie. Il che rende non del tutto certa la mappa dei collegi (non tanto di quelli che ogni schieramento considera sicuri, quanto di quelli in bilico). E il rischio che ci siano scostamenti importanti, soprattutto al Senato, è concreto: chi oggi lavora al dossier, per esempio, è convinto che balli un collegio tra Lazio e Toscana. La questione, insomma, è delicata. Tanto che a Palazzo Chigi e all'Istat si monitora la situazione, pronti a intervenire a fine anno con un nuovo decreto legislativo e le nuove tabelle con i relativi collegi (uninominali e plurinominali).
Queste le ragioni che agitano i parlamentari in cerca di un porto sicuro per la riconferma. Che sono diverse da quelle che preoccupano una buona parte dei partiti. Nel clima di tensione che caratterizza le attuali coalizioni, infatti, non è facile per nessuno degli schieramenti assegnare gli uninominali. Nel centrosinistra c'è il problema che il rapporto tra M5s e Pd è ormai così sfilacciato che molte big risulterebbero graditi a un elettorato ma non all'altro, a meno di non scegliere seconde fila poco conosciute e non divisive. Nel centrodestra, invece, il problema è che i 221 uninominali dovranno essere spartiti in base a sondaggi che premiano soprattutto Fratelli d'Italia. E non è un mistero che tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini ci sia un rapporto di reciproca diffidenza. Non sarà facile, insomma, buttare giù uno schema che faccia contenti tutti, compresa Forza Italia e i piccoli dell'orbita del centrodestra.
È per tutte queste ragioni che il dibattito in corso sulla riforma delle legge elettorale ha qualche speranza di andare avanti. Al di là dei tatticismi di queste ore e del battibecco in corso tra Pd e M5s da una parte e Pd e Lega dall'altra. La tentazione di superare i collegi uninominali, infatti, potrebbe diventare il collante di un confronto tra i partiti che al momento non sembra decollare. Perché non c'è solo il tema politico delle alleanze e della convenienza o sconvenienza dell'attuale legge, ma entra in campo anche la difficile gestione di quei 221 collegi uninominali. Che sono ancora da definire con il censimento del 2021, che difficilmente potranno essere il luogo della sintesi degli elettorati dell'una e dell'altra coalizione e che dovranno essere oggetto di una spartizione preventiva complicatissima. Tutti elementi che rendono le sfide in quei 221 collegi non sempre facilmente prevedibili. Un problema per le segreterie di quasi tutti i partiti.
È in questo senso che l'idea di un proporzionale corretto con un premio di maggioranza all'insieme dei partiti che prendono il 45% dei consensi - ipotesi su cui hanno lavorato Roberto Calderoli e Dario Parrini su input di Salvini ed Enrico Letta - potrebbe essere la strada più percorribile. Lo si capirà nelle prossime settimane, perché ieri era la giornata delle rassicurazioni e delle frenate.
Quella del Pd a Giuseppe Conte, che si è sentito scavalcato dalla trattativa. E quelle della Lega, che si è chiamata fuori dal confronto. Che per Salvini ha senso solo se si garantisce una legittimità alle coalizioni pre-elettorali.
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