La sua sconfitta sul ring, alla fine, è passata in secondo piano. A tenere banco è stata la polemica scaturita dai tatuaggi inneggianti al nazismo disseminati sul torace del pugile ventottenne triestino Michele Broili, che sabato si è battuto per il titolo italiano dei pesi superpiuma nella sua città natale sfidando Hassan Nourdine, piemontese di origini marocchine, il quale ha avuto la meglio ai punti.
Nonostante nell'ambiente pugilistico le idee politiche di Broili non siano un segreto, il pubblico che ha assistito all'incontro non ha gradito che il pugile combattesse - senza che il Coni avesse nulla da dire - mostrando i simboli della sua militanza. Non solo il Totenkopf, la «testa di morto» usata dal gruppo paramilitare di custodia dei campi di concentramento, ma anche il simbolo delle Schutzstaffel, le SS naziste, oltre alla scritta «Ritorno a Camelot», noto raduno organizzato dagli Skinheads veneti. Difficile non notarli e soprattutto capire come mai non gli sia stato impedito di salire sul ring con quei tatuaggi. Anche perché lo stesso pugile nel 2020 era stato al centro di un'analoga polemica quando venne scelto come testimonial di un evento organizzato dall'associazione pugilistica dove è tesserato e patrocinato dal Comune di Trieste. Anche allora i suoi tatuaggi, ben visibili nella locandina, fecero discutere. La foto fu fatta sparire e della questione non si è più parlato, fino al match di sabato.
La Federazione pugilistica ha preso le distanze, annunciando anche che ricorrerà alla Giustizia federale. «Durante l'incontro - ha scritto in una nota - si sono notati alcuni tatuaggi sul corpo del pugile inneggianti al nazismo e, come tali, costituenti comportamento inaccettabile e stigmatizzato da sempre dalla Fpi, la quale è costantemente schierata contro ogni forma di violenza, discriminazione e condotta illecita e/o criminosa». La Federazione sottolinea che di tale comportamento è esclusivamente responsabile il tesserato e, semmai, «indirettamente ed oggettivamente la società di appartenenza che lo abbia avallato e/o tollerato». «Alcuna responsabilità - si conclude - può e deve essere ascritta alla Federazione pugilistica Italiana, la quale non può essere a conoscenza delle scelte personali di ogni singolo tesserato sino a quando non ne abbia contezza».
La Fpi dunque «condanna e stigmatizza con forza e perentoriamente il comportamento del proprio tesserato e si dissocia da ogni riferimento che i tatuaggi offensivi dallo stesso portati evochino», ricordando come esso sia in palese contrasto con le norme sancite dal Codice di comportamento sportivo del Coni. Motivo per il quale sarà la Giustizia federale ad adottare le eventuali sanzioni.
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