La convinzione di un ciclo finito il Mondiale e Vialli: i tormenti di uno abituato a "rompere"

Ci sta che, nella Giornata Internazionale dei mancini, il numero uno della specie lasciasse l'impronta. Che poi i mancini vadano più di scherma o di pallate da tennis dipende dal giocatore: Roberto Mancini è uno da pallate da tennis, anche se ormai preferisce il padel

La convinzione di un ciclo finito il Mondiale e Vialli: i tormenti di uno abituato a "rompere"
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Ci sta che, nella Giornata Internazionale dei mancini, il numero uno della specie lasciasse l'impronta. Che poi i mancini vadano più di scherma o di pallate da tennis dipende dal giocatore: Roberto Mancini è uno da pallate da tennis, anche se ormai preferisce il padel. Stavolta deve essere finito nella brace dei sentimenti e dei tormenti, che pensasse a danarosi arabi, a qualche sgarbo sotto traccia o anche alla povertà calcistica di una nazionale che non prospettava nulla di buono per il futuro. Il successo europeo è stato una sorta di miracolo da addebitare a un bel gruppo, anzi alla fame di gruppo, ma i miracoli non sempre si ripetono. Mancini ha capito che il suo ciclo era finito: segnali avvertiti da tempo. Meglio chiudere subito, si è detto, è giusto così. Decisione istintiva seppur sofferta.

In realtà il ct aveva dato segnali di stanchezza fin da maggio, poi le ultime uscite in Nations League avrebbero mandato chiunque in depressione. Dicevano i sussurri: si guarda intorno. Magari non in Arabia piuttosto in Francia (Psg). Se poi sei il Mancini, col guizzo da impenitente, ogni tanto ti scappa la mano e fai volare per aria i fogli con tanto di saluti alla compagnia. Ci provò, da giocatore, alla Sampdoria quando un allenatore lo mise in panchina. E fu più bravo il suo presidente a trattenerlo. Non è stato il caso di Gravina che si tien sempre le spalle coperte e con il quale ci sono stati contrasti anche non lontani: fra l'altro questo presidente ha già perso i ct della nazionale maschile e femminile.

Invece da allenatore sono state situazioni calate all'improvviso: via da Firenze per una sconfitta che portò ad uno scontro pericoloso con i tifosi. Via dall'Inter per il gioco furbastro di Moratti che assunse Mourinho, sebbene Mancini avesse già capito, e annunciato il saluto, due mesi e mezzo prima. Via la seconda volta, ad un passo dall'inizio della serie A, per divergenza di vedute con Suning su obbiettivi futuri: e non aveva visto male. Via dal Galatasaray, a fine campionato, sempre per diversità di vedute tecniche. Infine via dallo Zenit San Pietroburgo perchè l'aria non quagliava . E magari c'era sentore di nazionale. Comunque sempre decisioni secche, improvvise, senza badare al pro e al contro. Definiamolo stile Mancini. E, dunque, questo passato dovrebbe indurre a pensare che qualcosa non è girato per il verso giusto anche stavolta. Lo davano nervoso ultimamente. Il rimpasto dei quadri tecnici azzurri è stato perlomeno sospetto: strano che il ct si sia privato di tutti gli antichi compagni di cordata. Quell'esser messo a capo della gestione tecnica globale poteva nascondere secondi fini nel regalare ad altri mansioni di potere. Poi l'assenza di Vialli: impossibile sostituirlo. In questo frangente ci sarebbe voluto proprio Luca. Forse Mancini si è sentito troppo solo, troppo allo scoperto, senza la spalla di un amico vero. Il ct ha sempre sostenuto di amare la nazionale, il flop mondiale lo ha certamente segnato, cercava una rivincita, un nuovo sogno da acchiappare.

Non sappiamo se avesse più bisogno di un gruppo di amici alle spalle o di una buona squadra da allenare per non restare ancora deluso nel sogno. Certamente con questa Italia ha lasciato il segno: per quel che ha vinto, per il coraggio di osare con i giovani e per come se n'è andato.

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