«Quando ci chiamano è perché serve il chirurgo specializzato: e a Palermo per la cattura di Messina Denaro siamo intervenuti in maniera assolutamente chirurgica. Non voglio vantarmi, ma di chirurghi bravi come noi in Europa ce ne sono pochi».
Giovanni Capone è il comandante dei Gis, i reparti di intervento speciale dei carabinieri che hanno gestito la parte militare della cattura di Matteo Messina Denaro. Era nel posto di comando operativo quando dalla radio è arrivato l'annuncio diventato celebre, «Veleno da Verde zero, lo abbiamo catturato». Veleno" è da sempre il nome in codice via radio dei Gis.
Colonnello, da quante ore eravate partiti dalla base di Livorno?
«Dico solo: da alcune ore».
Sapevate che il bersaglio era Messina Denaro?
«Certo che sì, non siamo partiti al buio anche se tutto è stato gestito con grande riservatezza. D'altronde avevamo fornito supporto ai colleghi del Ros anche nella fase delle ricerche con strumenti ad alta tecnologia, in particolare sui rilevamenti a distanza».
Chi ha deciso il vostro intervento?
«Il comando generale, su richiesta del Ros e sulla base di due caratteristiche dell'operazione: il rilievo strategico dell'obiettivo e la complessità tattica dell'intervento».
Come si organizza un'operazione simile in un ospedale affollato di medici, infermieri, pazienti?
«Era chiaro fin dall'inizio che era una situazione particolare, dove l'obiettivo prioritario era non mettere a rischio l'incolumità di nessuno, compreso l'uomo da catturare. Per questo in quelle ore è stato fondamentale il flusso continuo di notizie dal Ros, ci siamo abbeverati agli elementi che ci fornivano i colleghi per pianificare senza trascurare nessuna ipotesi».
Come vi sareste comportati nel caso che Messina Denaro fosse armato, che avesse una scorta, che si rischiasse uno scontro a fuoco in mezzo alla gente?
«Siamo organizzati in modo tale da congelare in modo immediato ogni tipo di minaccia rendendo inoffensive anche situazioni complesse».
Anche sparando?
«Se avessimo dovuto anche solo ferire Messina Denaro lo avrei considerato un fallimento. Noi siamo pronti a tutti gli scenari ma se diamo la possibilità al cattivo" di mettere mano alle armi vuol dire che potevamo fare di meglio».
Cosa avevate in mano per pianificare l'azione?
«Ogni intervento viene pianificato sulla base di quella che chiamiamo intelligence tattica. In questo caso ovviamente tutte le planimetrie, i rilievi compiuti dal Ros prima del nostro arrivo, e poi quelli compiuti da noi nelle poche ore a disposizione prima dell'intervento. Avevamo la carta di identità con la foto del falso Bonafede, ma non sapevamo quanto la foto fosse attuale, quanto le terapie avessero cambiato Messina Denaro. Quindi una volta isolata l'area uno dei primi obiettivi era essere sicuri che nessuno potesse lasciarla senza avere la certezza che non era chi stavamo cercando».
Alla fine lo avete bloccato all'aperto, sulla sua auto. Quanto sarebbe stato più difficile intervenire in una sala d'attesa piena di gente?
«Avremmo trovato anche in quello scenario il modo per intervenire. Probabilmente è stato più indolore così per tutti quanti».
Quando avete capito che era finita?
«Quel messaggio via radio al mio ufficiale che dirigeva l'operazione è stato un attimo di sollievo e anche di emozione. Ma per noi non era finita, c'era da gestire il trasferimento in caserma, poi in una seconda caserma, poi all'Aquila. Abbiamo potuto chiudere la pratica solo quando è stato consegnato al carcere».
Come ci si prepara a un intervento di questo tipo?
«Facendo addestramento in maniera spinta, usando la tecnologia, e sapendo che a volte ci si trova davanti a casi complessi. E ricordandoci che non si può improvvisare».
Quando si è accorto di voi Messina Denaro?
«Solo pochi minuti prima che lo bloccassimo».
In quei momenti prevale l'adrenalina?
«Per niente. Siamo addestrati a tenere a bada anche la inevitabile accelerazione emotiva e contare solo sulla concentrazione. Proprio come un chirurgo in sala operatoria».
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