Washinton. I media americani hanno esaurito gli aggettivi e le iperboli. Quelli liberal, che già a marzo, per l'incriminazione a Manhattan, avevano titolato «storico», «prima volta», e quelli di orientamento opposto, a cominciare da Fox News, con «scandaloso», «ingiustizia». La verità del momento la fotografa probabilmente - e con ammirevole onestà intellettuale - il Washington Post. La nuova incriminazione di Trump, stavolta a livello federale, «mette la nazione su un sentiero pericoloso», commenta il quotidiano-bastione dei progressisti Usa. Le implicazioni sono tanto gravi per Trump quanto per l'Amministrazione Biden. Basta fare un passo di lato, allontanandosi dal rumore scatenato in queste ore dalle tifoserie contrapposte, per comprendere che la possibilità che finisca in carcere un ex presidente, candidato alla Presidenza e potenzialmente nuovo presidente, è una prospettiva che la superpotenza americana non può permettersi.
La notizia dell'incriminazione ha sui Repubblicani due effetti immediati. Ricompatta, con un riflesso pavloviano, la leadership del partito, ma spacca il fronte dei candidati alla nomination. «È una grave ingiustizia», ha detto lo speaker della Camera Kevin McCarthy, in questi giorni impegnato ad affrontare la rivolta dell'ala ultra conservatrice Gop, contraria all'accordo sul debito siglato con Biden. «Un giorno triste per l'America. Dio benedica il presidente Trump», gli fa eco Jim Jordan, presidente della Commissione Giustizia della Camera. Ma se il governatore della Florida Ron DeSantis, principale sfidante di Trump per la nomination, parla di «uso politico della giustizia», dopo aver passato le ultime settimane a cannoneggiarsi sui social e nelle interviste con l'ex presidente, l'ex governatore del New Jersey Chris Christie ripete quello che va dicendo da mesi: «Nessuno è al di sopra della legge». Lo stesso fa Asa Hutchinson, ex governatore dell'Arkansas, anche lui candidato, che chiede che Trump si ritiri dalla corsa alla nomination. Una posizione di mediazione sembra quella di Mike Pence. L'ex vice presidente, anche lui sceso in campo, chiede che i federali rendano pubbliche le accuse prima dell'arresto di Trump martedì a Miami, così che gli americani «possano giudicare da soli».
Per la Casa Bianca di Biden, che si è trincerata dietro un granitico «no comment», il martirio di Trump ha soprattutto due implicazioni. Quella positiva: la possibilità che la nuova incriminazione spinga più in alto le azioni del tycoon per la corsa alla nomination (è accaduto dopo l'incriminazione di marzo a Manhattan). Gli strateghi dem, nel riproporre la candidatura di Biden, hanno puntato tutto su Trump: è lui lo sfidante ideale per l'anziano Joe. Quella negativa è invece il rischio di un'ulteriore polarizzazione della società, con accuse di «doppio standard» e ovviamente, di un «uso politico della giustizia». Lo stesso Biden è ancora indagato per una vicenda analoga, sebbene gestita in maniera assai più collaborativa con l'Fbi. È per scongiurare questo rischio, probabilmente, che i federali hanno optato per il tribunale di Miami e non di Washington. L'ex presidente non potrà lamentarsi di una piazza ostile, essendo la Florida una delle sue roccaforti.
Non solo, almeno all'inizio, il procedimento verrà gestito dalla giudice federale Aileen Cannon, nominata a suo tempo dallo stesso Trump, che già a inizio indagine si era mostrata favorevole all'ex presidente. La Cannon potrebbe optare per una data del processo successiva al voto 2024. E poi si vedrà.
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