Il guaio è che non è cambiato niente. Incriminato con ignominia Luca Palamara, epurati dal Consiglio superiore della magistratura i consiglieri più esposti nello scandalo, alla prima prova il Csm rinnovato e moralizzato ha fatto esattamente quello che faceva prima: lottizza, spartisce le cariche non in base al merito ma alla tessera di corrente. Con il risultato che la prima infornata di nomine del nuovo corso viene impugnata e azzerata dal Tar del Lazio. Il Csm si impunta, spalleggiato dal ministero della Giustizia, e fa appello al Consiglio di Stato. E viene sconfitto un'altra volta. E pensare che la raffica di poltrone era stata assegnata all'unanimità da tutte le correnti, compresa quella del moralizzatore Davigo che mette la sua firma sulla delibera prima di lasciare obtorto collo il Consiglio per raggiunti limiti di età.
Per difendere la spartizione, i capicorrenti avevano fatto ricorso a un delizioso eufemismo, parlando - nel ricorso al Consiglio di stato - di «prospettiva culturale poliedrica», modo elegante per dire che le fazioni di destra, sinistra e centro avevano pari diritto di essere rappresentate. Peccato che questo criterio di scelta non compaia in alcuna norma. Così, dopo la doppia bocciatura, si dovrà rifare tutto.
In ballo, nella seduta del 4 dicembre 2019, non c'era la guida di una Procura o la presidenza di un tribunale, le cariche più in vista tra quelle divise meticolosamente in questi anni in base al manuale Cencelli delle toghe. Ad essere assegnati erano sei posti alla Scuola superiore della magistratura, il centro di formazione per i giudici di tutta Italia. Un posto defilato ma cruciale, chi viene assegnato accumula crediti a dismisura per le carriere future e nel frattempo, assegnando incarichi per corsi e relazioni agli amici di corrente, può tessere intorno a sé la rete del consenso. Così quando il Csm raccoglie le candidature si fa avanti un esercito di aspiranti: cento giudici noti od oscuri da tutta Italia. Ma nelle segrete stanze di piazza Indipendenza si sa già chi deve vincere. Ottanta candidati vengono esclusi al primo colpo, compresi quelli che rischiano di fare ombra ai vincitori designati. Dei venti che restano, il Csm per fare in fretta (questa singolare motivazione verrà davvero indicata nel ricorso) non confronta neanche i curriculum e procede alla nomina. Un posto alla corrente di Davigo, Giuseppe Corasaniti; uno alla sinistra di Area, Costantino De Robbio; uno a Unicost, Antonella Ciriello; uno alla destra di Magistratura Indipendente, Gianluca Grasso. I consiglieri laici impongono Lorenzo Calcagno e col voto di tutti passa un cane sciolto vicino alla sinistra, Marco Alma.
Ma un giudice pugliese, Gabriele Positano, non ci sta: e si rivolge alla giustizia amministrativa facendo presente di avere più esperienza nel settore di buona parte dei nominati. Uno dei prescelti, Grasso, tra l'altro non fa il giudice da una decina d'anni essendo stato distaccato a fare il segretario del Csm, lo stesso organismo che ora lo ha nominato. Il Tar del Lazio accoglie in pieno il ricorso, i giudici amministrativi scrivono che anche se il Consiglio rivendica la «più ampia discrezionalità», «non si possa prescindere dal rispetto dei comuni canoni di trasparenza e di par condicio»: cosa che in questo caso non è avvenuta affatto.
Il Csm non si arrende, e ricorre al Consiglio di Stato per difendere la sua scelta.
E qui le cose gli vanno ancora peggio, perché se in primo grado il Tar si era limitato ad accusare la delibera di violare trasparenza e par condicio, la nuova sentenza va giù piatta: invece di usare il «principio meritocratico», il Csm ha fatto «una scelta politica o comunque partitamente fiduciaria». Non è davvero cambiato niente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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