"Difendevo le aziende e sono scampato agli attentati delle Br. Oggi lavoro e corro ai mondiali over 90"

Dalla Sicilia a Milano, Salvatore Trifirò ha attraversato gli anni di piombo ed è diventato il re dei giuslavoristi (e ha sconfitto pure i Pink Floyd)

"Difendevo le aziende e sono scampato agli attentati delle Br. Oggi lavoro e corro ai mondiali over 90"

La giornata è quella di un atleta. Al mattino un'ora buona di esercizi in palestra. Poi, di volata in ufficio con le finestre che affacciano sul Palazzo di Giustizia. Riunioni. Incontri con i clienti, letture e aggiornamenti. Al pomeriggio, se appena il tempo uggioso lo permette, spostamento all'Arena per provare gli scatti in pista. D'altra parte i mondiali master sono vicini. «Settimana prossima parto per la Florida. Nemmeno il tempo di acclimatarmi e il giorno dopo mi giocherò il tutto per tutto nei sessanta metri». Sessanta metri da divorare in 13-14 secondi. Sessanta metri per gli over novanta: sì, perchè Salvatore Trifirò, principe del foro e decano dei giuslavoristi di rito ambrosiano, ha compiuto in febbraio 93 anni.

Novantatré anni portati alla grande e anche con una certa disinvoltura: eccolo entrare in completo da jogging, scarpe da tennis e cappellino nell'imponente sala riunioni al quinto piano di un palazzo occupato per intero dallo studio che porta il suo nome.

«Ho cominciato due anni fa, quando avevo novantuno anni, ma non andavo oltre i 15 secondi e un decimo. Oggi, anche se non si tratta di risultati ufficiali, valgo 13 secondi e cinque decimi. Ma spero di fare ancora meglio. Certo, devi tenere una dieta stretta, con più di una rinuncia. E devi allenarti con costanza, ma il sacrificio lo faccio con passione. Ho sempre amato la novità, l'idea di fare un passo in avanti, le sfide difficili».

Sfida numero uno, sopravvivere letteralmente alla fame nella Milano degli anni Cinquanta: «Arrivavo dalla Sicilia, con la laurea in tasca. Ma fu un periodo difficile, ricordo che qualche volta andavo a mangiare all'Ente comunale di assistenza. La cucina era quella che era ma si pagava pochissimo e io non avevo scelta. Poi superai il concorso da procuratore legale: primo su tremila. A quel punto ricevo una telefonata: è Cesare Grassetti, che sarà il mio maestro. Centomila al mese vanno bene?. Io ne incassavo cinquemila e non mi pareva vero. Dissi di sì e cominciò la mia carriera».

Salvatore Trifirò diventa uno dei più apprezzati giuslavoristi di Milano. E attraversa con coraggio, quasi con temerarietà, gli anni Settanta. «Il clima era terribile, manipoli di estremisti e rivoluzionari dominavano la scena, anche in tribunale, dove si viveva una situazione assai pesante. Io, quando camminavo per strada ma anche nei corridoi del Palazzo di Giustizia, stavo sempre sul chi va là. E se qualcuno gridava Trifirò, io non mi giravo per nessuna ragione al mondo, ma tiravo diritto. Più di una persona, per aver risposto, si era vista puntare in faccia una pistola. Figurarsi, io difendevo le grandi aziende, le multinazionali, molti marchi famosi, e ricevevo di continuo minacce. Si immagini cosa poteva voler dire procedere con i licenziamenti alla Sit-Siemens. La mia auto e quella del direttore del personale dell'azienda furono bruciate. Un giorno come testimone a favore di un lavoratore licenziato si presentò Mario Moretti, che per me era un illustre sconosciuto e invece era già uno dei leader delle Brigate rosse».

Ma questo è niente. In almeno due occasioni, Trifirò rischia la vita: «Vivevo blindato, come un monaco. Casa, studio. E ancora casa. Prima di uscire, guardavo attraverso le persiane per vedere se c'era qualcuno che mi aspettava vicino al portone. Una sera comunque sono al Momus, il locale che mia moglie Paola aveva aperto a Brera, e arriva il cameriere: Di là ci sono due persone che chiedono di lei. Era tardi e la richiesta non mi quadrava. Mi defilai dalla porta sul retro».

Sì scoprirà in seguito, anche grazie ad una raffica di pentimenti, che uno dei due era Umberto Mazzola, poi condannato per l'omicidio del giudice Alessandrini, e l'altra era una giovane di quella formazione terroristica.

«Ci fu una seconda volta in cui il commando, composto da alcuni big di Prima linea, e fra loro Sergio Segio, mi aspettava sul marciapiede. Io salii sulla mia auto e proprio in quel momento il passaggio, casuale, di una guardia giurata mi salvò probabilmente la vita. Io però non mi accorsi di nulla».

Una sorta di stato d'assedio permanente. E Trifiró svela un altro episodio inedito e sconvolgente: «Mi arriva una chiamata dal capo della Digos: Domani, mi dice Vito Plantone, lei non si muova da casa, se ha bisogno chiami il maresciallo Bazzega. L'indomani sono a casa e i programmi si interrompono: edizione straordinaria del Tg1. A Sesto San Giovanni in un conflitto a fuoco sono morti il brigatista Walter Alasia, il vicequestore Vittorio Padovani e lui, il maresciallo Sergio Bazzega. Resto senza parole. Gli investigatori mi raccontano che in un covo delle Br hanno trovato alcune mie foto, scattate in tribunale, e una piantina del mio studio. È proprio Alasia ad aver fatto tutto: la mappa e le istantanee con cui mi hanno schedato. Di sicuro in studio veniva Enrico Baglioni, un altro terrorista, che a volte parlava anche con me. Forse è stato lui la talpa che passava informazioni ad Alasia? Comunque, Alasia mi ha pedinato e fotografato in tribunale».

Pian piano la situazione si rasserena, la carriera di Trifirò è una collezione di successi. Per raccontarli forse non basterebbe un libro. Ecco, alle pareti ci sono alcune opere di Emilio Isgrò. Pure lui ha vinto la sua causa grazie a Trifirò, perché i Pink Floyd gli avevano rubato un'immagine del Cristo cancellatore piazzandola sulla copertina di un loro album. Anche loro sono stati sbaragliati. Lo studio assomiglia ad un'armata composta da un'ottantina di legali. E fra di loro c'è Stefano Trifirò, avvocato come il padre.

Oggi per Salvatore la frontiera è quella della corsa: «Valerio Gaudio, il preparatore, mi ha fatto notare che avevo una buona elasticità. Allora, ho provato. E a sorpresa ad Ancona ho vinto la medaglia d'oro ai campionati italiani. In Florida la concorrenza sarà molto più agguerrita».

Il sogno sarebbe salire sul podio, incuneandosi fra americani e giapponesi: «Ma non mi faccio problemi. Finiti i mondiali, io e mia moglie Paola tireremo il fiato e ci concederemo una settimana da turisti».

Una vacanza prima di tuffarsi di nuovo nel lavoro. E nel training quotidiano.

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