La Lega alleata in Europa con i partiti nazionalisti è «un'anomalia» dice Giancarlo Giorgetti (nella foto), numero due del partito. Secondo il ministro dell'Economia i leghisti vivono una «contraddizione», quella di «un movimento federalista come il nostro che ora deve fare asse con movimenti nazionalisti per le battaglie epocali che ci si pongono davanti», come quelle sulle migrazioni globali e sull'Europa superStato. Un'alleanza innaturale, quindi, che però si rende necessaria. «La Lega è costretta a diventare sovranista - spiega ancora Giorgetti - per allearsi con nazionalisti e vincere le battaglie strategiche». «È un'anomalia - dice il ministro -, all'Europarlamento siamo passati dal gruppo Arc en ciel a Identità e democrazia», cioè da un gruppo che comprendeva i partiti regionalisti a quello attuale dove siedono Le Pen, l'Afd e appunto i partiti nazionalisti europei. Il ministro parla nel libro sui 40 anni della Lega (L'Umberto. L'uomo che ha inventato il nord) di Aurora Lussana, giornalista, storica militante leghista (prima tessera nel 1992), ex direttrice di Telepadania e della Padania. Nonché ex «segretaria bergamasca» poco più che ventenne di Bossi, che nel 2001 le detta il nome da mettere in lista alla Camera, nel collegio Sesto Calende 4. Lei però lo sbaglia, aggiungendo una i di troppo: «Giorgietti». «Ma cosa hai scritto, togli quella i!» urla Bossi tra l'irritato e il divertito. Lei ammette di non conoscere quel Giorgetti senza i. Bossi allora spiega che è «un nostro sindaco e fa il deputato. È il figlio di un pescatore del lago di Varese». E aggiunge una avversativa meravigliosa: «Ha fatto la Bocconi ma è bravo».
Giorgetti è uno dei big leghisti che Lussana intervista nel libro - ricco di aneddoti sulla storia della Lega e sui personaggi che l'hanno attraversata -, quello che occupa la poltrona più importante, l'Economia, ma di solito il meno loquace. Qui invece si apre un po'. «Da buon cattolico credo nella Provvidenza», e ad essa Giorgetti attribuisce il destino da eterno numero due della Lega, anche se Bossi lo aveva designato come suo successore. «Confermo, ma gli eventi mi hanno portato a fare altro. Dopo le dimissioni di Bossi era giusto ci fosse Maroni e dopo di lui toccava a Salvini. Sono consapevole di aver fatto tante cose importanti nell'interesse della Lega ma non il segretario. È stata la Provvidenza a disporre per noi» dice Giorgetti che ringrazia Manzoni anche per aver «ben spiegato l'animo remissivo dei lombardi umili offesi», un concetto che Gianni Brera, «un protoleghista», riassumeva in modo più spiccio, «scriveva che noi lombardi siamo anche un po' coglioni». Giorgetti è di Cazzago Brabbia ma ormai è «romano» per professione da quasi trent'anni, deputato dal '96. «Alcuni meccanismi romani non sono funzionali all'efficienza, del resto a Roma la cultura amministrativa deriva dal potere papale. Io lavoro in un palazzo fatto dai piemontesi che tentarono di riprodurre il modello sabaudo nella capitale». Senza successo, sembra di capire. Infatti Giorgetti propone di spostare due ministeri più a nord: «Penso al dicastero della Cultura che starebbe benissimo a Firenze» mentre quello delle Imprese, l'ex Sviluppo economico, «a Milano starebbe in un humus più congeniale», e anche la Consob «potrebbe stare gran bene a Milano». Nel volume parla anche Salvini. Il leader avverte «l'ostilità da un certo tipo di élite» verso la Lega, «penso al sistema mediatico».
Ma non solo, tra i «poteri forti» che osteggiano la Lega mette anche «magistrati» e «alta finanza», questo «testimonia quanto ancora siamo percepiti come alternativi ad un certo sistema. Nonostante la Lega sia al governo del Paese, di amici potenti non ne abbiamo».
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