Insomma, spiega a un certo punto Mario Draghi a uno dei ministri a lui più vicini che lo ha chiamato per convincerlo a restare, la questione è semplice: o si riforma il patto di fiducia, ma a questo punto non so come, o io sarò costretto a dimettermi. Ma basta chiacchiere e contorsioni, serve un «impegno pubblico» in Parlamento. Nero su bianco, una mozione di maggioranza. E il premier, dalla casetta marina di Lavinio, risposte simili le dà anche agli altri che riescono a contattarlo. O mi mettono in condizioni di governare, questo il senso, oppure la mia esperienza finisce qui. E siccome i piccoli, convulsi e contraddirmi passi avanti dei grillini sono ancora insufficienti, visto che il filo tra Draghi e Conte è interrotto e l'avvocato del popolo non telefona, ecco che una fonte prossima al presidente del Consiglio azzarda un pronostico: «All'ottanta per cento Mario molla e se ne va».
Poi certo c'è anche l'altro venti per cento, che non è poco: una percentuale che da giovedì scorso si è allargata dopo la mossa di Sergio Mattarella di rimandarlo alle Camere e che fa sperare tutti quelli che lo cercano tentando di convincerlo. Draghi, raccontano a Palazzo Chigi, è rimasto «molto colpito» dall'appello dei mille sindaci, dalle lettere del personale sanitario che ha combattuto il Covid, dalle petizioni firmate dalla gente comune. E sicuramente gli hanno fatto piacere le parole di tutti i leader occidentali, delle istituzioni europee, di Zelenski, gli articoli della stampa internazionale, la benedizione del Papa. Un pressing globale, planetario.
Tra 48 ore vedremo se tutto ciò sarà sufficiente per sgretolare il muro. Si punta sui contatti informali. Si cercano soluzioni alternative. E si lavora sul fattore tempo, su quei giorni strappati dal capo dello Stato, che non sono soltanto un ossequio al rito costituzionale che prevede di trasferire le difficoltà politiche nel luogo deputato, ossia il Parlamento. Peraltro nella forma la crisi nemmeno esiste ancora: il premier, che ha appena ottenuto una larga fiducia, è nel pieno dei suoi poteri. Mercoledì 20 è piuttosto una linea di confine, un margine abbastanza ampio per consentire ai partiti di chiarirsi per poi pronunciarsi in modo solenne e definitivo davanti agli eletti dal popolo. Se non vi accordate, manda a dire in Quirinale, tutti a casa.
Infatti qualcosa si muove. Non abbastanza però, e non in maniera lineare: Giuseppe Conte insiste con gli ultimatum e i «vogliamo vedere i fatti» e continua a non prendere impegni e a non cercare Draghi. Se quindi doveva arrivare un segnale dai partiti, ancora non ci siamo. Il premier non vuole farne una questione personale anzi, dicono, e ben consapevole della situazione generale e dei rischi che corre il Paese. L'economia, la guerra, l'energia, le bollette, l'inflazione, il Covid che riparte, la Finanziaria da preparare, il Pnrr da completare, i miliardi europei da incassare dopo le riforme. Tuttavia, proprio per tutti questi motivi, occorre un governo che possa governare e che non sia rallentato dalle forze politiche in campagna elettorale, L'ex governatore della Bce non si vuole tirare indietro di fronte alle sfide però, sostiene, ci devono essere le condizioni.
In sostanza. M5s farà marcia indietro? Se si, come la prenderanno Forza Italia e Lega che chiedono di andare avanti senza di loro? E se invece rimarranno fuori, Draghi accetterà di sostituirli con la nuova truppa di Di Maio?
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