La pagina Facebook di Marco Prato è un «libro aperto» su un giovane gay apparentemente normale. Descrive un trentenne amante dei viaggi (Parigi, Casablanca, Barcellona) con un debole per la cantante e attrice franco-italiana Dalida, una figura che lo ossessiona e che lui riconduce alla mamma (roba che farebbe la «felicità» di qualsiasi psichiatra di scuola freudiana); e poi tanti mi piace su feste, locali, musica, cinema, programmi tv.
Tra i preferiti della categoria libri spicca però un solo volume, introvabile in biblioteca ma in bella mostra sul comodino a fianco al letto di Marco.
I carabinieri lo ha hanno trovato con la copertina sgualcita, come se quelle pagine fossero state lette e rilette più volte. Alla ricerca di qualcosa o forse di se stesso. Un sé privato, intimo, che il pr romano che segnava di diventare donna, ma che era rimasto prigioniero del suo corpo da uomo, rincorreva nella trama di un bel romanzo di uno scrittore esordiente di grande sensibilità: Filippo Castellucci, autore di A domanda rispondo (ma nessuno ha mai chiesto) (Ed. Albatros).
Non sappiamo se Prato e Castellucci si conoscano, certo è che uno dei killer di Luca Varani apprezzava la prosa di Castellucci, tanto da aver eletto il suo libro a unico «preferito» del proprio profilo social.
Il motivo di tanta predilezione? La vicenda narrata da Castellucci non ha nulla di cruento, benché rievochi alcuni dei fantasmi interiori che forse si agitano nell'anima Marco Prato.
A domanda rispondo è infatti la narrazione di un'identità omosessuale che vaga nel deserto delle incomprensioni, ghermita da quegli stessi mostri esistenziali che progressivamente hanno trasformato Prato in un essere capace di compiere lo scempio che ha sconvolto l'Italia.
Nel libro amato dal carnefice di Luca c'è un paragrafo (in realtà si tratta della quarta di copertina) sottolineato con l'evidenziatore giallo: «Una crepa che compare su un muro, l'impercettibile traccia di un sisma silenzioso che scuote nelle profondità l'anima di un ragazzo e sfida il granitico silenzio di quanti lo circondano. Nel non facile riconoscersi allo specchio, all'apparire di contraddizioni complesse ed emozioni e sentimenti irrefrenabili, l'autore dà voce a un'umanità discreta e silente, che dietro gli eccessi di trucchi e trasgressioni vive la propria omosessualità con intensa passione, lì dove la passione non si spoglia del più intimo dolore». E poi: A domanda rispondo (ma nessuno ha mai chiesto) è una sincera affermazione di sé, un'indagine profonda che aiuterà, chi lo desidera, a fare i conti col proprio passato e il proprio presente, nella ferma intenzione di costruirsi un futuro d'amore sereno».
Ecco, Marco Prato (e con lui il suo degno compare, Manuel Foffo) hanno probabilmente letto tutto questo, ma di «costituirsi un futuro d'amore sereno», non ci pensavano minimamente. Anzi, la strada scelta era in direzione opposta: cioè verso un «futuro» (divenuto tragicamente «presente») di sangue e crudeltà infinita. Oltre ogni limite, confine, tabù. Al di là della cognizione umana, pur nella sua forma più patologica e malvagia. Cattiveria allo stato puro, evaporata tra polvere di cocaina.
Nella storia narrata da Castellucci si esprime anche il disagio «spirituale» del protagonista omosessuale, alle prese con un sacerdote: «Mi sono avvicinato anch'io a padre Antonio durante l'adolescenza, perché quella serenità era lui a emanarla. Fratelli miei ha detto però un giorno, quella è una malattia incurabile. È da lì che ho iniziato a seguirlo meno, non mi sono sentito più suo fratello. Eppure fin da piccolo mi hanno insegnato che Dio ci ha creati a Sua immagine e somiglianza e che non commette errori. Credo di essere esattamente come Lui voleva che fossi, sono figlio Suo, non di un dio minore. E se si dovesse trattare di una malattia, un figlio cieco, sordo o storpio, non viene forse amato più di quello sanno? Non me la sento di attribuire delle colpe a qualcuno o a qualcosa per quello che sono. Così ci sono nato, non ci sono diventato».
Nella pagina Facebook dedicata al libro, un'angosciante «coincidenza», tutt'altro che casuale: la notizia di «uno studente di 16 anni si è gettato dal terzo piano della scuola che frequenta».
Spiega l'articolo: «A spingerlo a tentare il suicidio erano state le continue derisioni da parte dei suoi coetanei i quali lo prendevano in giro per la sua omosessualità. È successo a Roma». Nella stessa città dove Luca Varani è finito nella trappola di due cocainomani criminali che lo hanno torturato e ammazzato senza pietà. Anzi, con sadico piacere.
Il motivo? «Volevamo vedere l'effetto che fa uccidere una persona».
Che siano maledetti.
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