La lettera «C» affiancata al rating è da sempre un bollino nero che equivale a uno stigma finanziario. Significa che sei totalmente inaffidabile e stai pencolando sull'orlo della bancarotta. Quel marchio d'infamia Fitch l'ha appiccicato ieri al debito sovrano russo, con un post-it che suona già come una condanna: «default imminente», a causa degli «sviluppi che hanno ancor più minato la volontà della Russia di ripagare il proprio debito pubblico». Come dire, «allacciate le cinture e preparatevi al peggio». L'inciampo fatale ha già una data probabile: è il prossimo 16 aprile, quando saranno scaduti i 30 giorni di grazia entro i quali vanno saldati interessi su un bond per un totale di 117 milioni di dollari. Con almeno 300 miliardi di dollari di riserve in valuta estera bloccate, Mosca intende forzare la mano rimborsando il dovuto in rubli ai creditori finiti nella black list di Putin. Lista di proscrizione in cui è stata messa anche l'Italia, colpevole di aver avallato le pesantissime sanzioni contro il Cremlino.
C'è però un problema: le cedole da versare entro la metà di aprile non sono rimborsabili in una valuta diversa rispetto a quella di emissione, dal momento che le obbligazioni in questione sono state emesse prima del 2014. Da allora, cioè dopo l'annessione della Crimea e in seguito al primo blocco di misure punitive contro la Russia, tutte le emissioni contengono una clausola che comprenda la possibilità di rimborso in valuta locale. Così, gli impegni assunti fino a otto anni fa vanno onorati in un solo modo: sborsando biglietti verdi. O euro. In caso contrario, scatta il cosiddetto default tecnico, che altro non è se non la violazione di un patto stabilito in precedenza sul prestito.
L'interrogativo è cosa accadrebbe in caso di un'insolvenza selettiva, alla quale potrebbero poi sommarsi altri mancati pagamenti. Questo mese vanno infatti versati 700 milioni di dollari. Benché quasi tutti siano provvisti del «paracadute» dei 30 giorni di grazia, la possibilità di un effetto domino è concreta. Come peraltro accaduto nel 1998, con il crac di Mosca provocato da una miscela esplosiva composta da rublo in caduta libera, fuga di capitali, petrolio offerto a prezzi di saldo, crisi del Sud-Est asiatico, tassi alle stelle e stock valutario azzerato. (Il caos che preparò il terreno proprio all'arrivo di Putin). Allora, il default colpì il 39% del totale del debito pubblico, nelle mani di investitori non residenti per una cifra oscillante fra i sei e i 20 miliardi di dollari. Poi, tra l'agosto '99 e il febbraio 2000, si negoziò la ristrutturazione del debito. Alcuni studi hanno calcolato un haircut, cioè la perdita subita dai possessori dei bond sul valore nominale del titolo, compreso fra il 41 e il 55%. Altre stime, che tengono conto della svalutazione del rublo, indicano una perdita del 70%.
Posto che per le cifre in gioco (40 miliardi di dollari spalmati su 15 bond espressi anche in euro) non sono paragonabili a quelle che portarono nel 2001 l'Argentina alla catastrofe finanziaria (100 miliardi, dei quali circa 15 detenuti da 450mila risparmiatori italiani), un eventuale default rischia di essere oggi ben più pesante di quello del 98.
Con una situazione di guerra in corso, verrebbe a mancare l'ombrello del Fondo monetario internazionale, aperto invece 23 anni fa, nonché la solidarietà verso Mosca da parte delle banche centrali. Le sanzioni, d'altra parte, mirano a mettere Putin con le spalle al muro. Anche a prezzo di pesanti effetti collaterali.
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