La favola della "variante emiliana"

Stefano Bonaccini è candidato alla Segreteria di ciò che fu anche il Partito Comunista Italiano.

La favola della "variante emiliana"

Dunque, Stefano Bonaccini, è candidato alla Segreteria di ciò che fu (anche) il Partito Comunista Italiano e, stringendosi un po' nelle spalle lo ammette, senza gridarlo, ma anche senza nasconderlo: «Ebbene sì - ha confessato senza troppa riluttanza - sono stato comunista, ma un comunista emiliano, Non sono come quelli che dicono di non essere mai stati comunisti». Questa era una legnata a Walter Veltroni che in preda ad un revisionismo da ansia, aveva detto di non essere mai stato comunista. Bonaccini sì, lo è stato ma ha barato un bel po' sulle parole, inventando la certificazione storica e separata del buon comunista emiliano, una specie del buon selvaggio di Rousseau.

Però è vero, fa parte dell'immaginario collettivo la fiaba secondo cui un conto fosse il Pci del palazzone di via delle Botteghe Oscure (che poi si sono dovuti rivendere di corsa appena finirono i finanziamenti e l'Unione Sovietica) e un altro fosse il partito comunista del capoluogo regionale ribattezzato «Bologna, la Dozza», anziché la dotta, dal nome del sindaco comunista Giuseppe Dozza che la governò per ventun anni e fu il vero Peppone d'Italia. Stefano Bonaccini ha dunque ammesso di esser stato non del Partito Comunista che da Roma premeva su Mosca affinché la rivoluzione ungherese fosse schiacciata dai carri armati sovietici, ma di quell'altro partito buono saggio, laborioso che il Pci usava come alibi. Il Pcb bolognese non conosceva invasioni di carri armati a Budapest o a Praga, ma solo asili nido in cui tutti vivessero felici e contenti dalla culla alla bara. Il Pcb era presentabile all'estero. Mettendo in bacheca e associando salumi e partito in ogni momento della vita. Qui, figuratevi - dicevano e dicono gli eredi di quel partito noi non ricordiamo neppure la «Volante rossa» o il Triangolo di Reggio Emilia, quando a guerra finita e a vendette consumate, camion di comunisti volontari andavano a concludere la cena degli odiati borghesi, perché credevano di essere alla vigilia della rivoluzione che poi non ci fu, come si può leggere nei libri di Giampaolo Pansa che, da grande narratore della guerra partigiana, affrontò quell'altra guerra (dopo la guerra) in cui si fucilava e si faceva sparire senza dar più notizia: «Va là, moccioso, non ti preoccupare che il babbo te lo riportiamo domani mattina più bello di prima. Vai pure a letto senza piangere che non è niente».

Poi la rivoluzione non si fece perché Togliatti, dopo il patto di Yalta che divideva il mondo in due, non volle fare la fine dei compagni greci che insorsero contro l'Occidente e furono sconfitti senza che Stalin levasse un dito per difenderli. Quindi, la stessa Bologna, la Romagna e l'Emilia, tutte in origine fascistissime durante il ventennio, si ritrovarono ad usare gli strumenti che la tradizione repubblicana aveva forgiato per due secoli nello Stato della Chiesa, dove la solidarietà e l'organizzazione funzionavano con tutte le caratteristiche che il Partito comunista (b) fece sue, cercando anzi di assumerle come simbolo nazionale. Ma quando il partito comunista tentava provava a spacciarsi - con lo stessso metodo - nelle altre regioni, non funzionava più persino nelle Regioni rosse come la Toscana e l'Umbria, non parliamo del Sud. Oggi Bonaccini si presenta confessando un peccato veniale: l'essere stato un comunista emiliano.

E il resto del passato comunista? E il resto del Paese? Che ideologia, o almeno che discendenza genetica è quella di una mitizzata e sopravvalutata amministrazione comunale di settanta anni fa? Ma Bonaccini, che sta attento ai logos e al look, come dimostrano le sue straordinarie sopracciglia, taglia corto approfittandosi della memoria svanita.

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