La finta libertà di Girone è un altro schiaffo per noi

Il Tribunale internazionale ha stabilito che sarà l'India a dettare le condizioni della permanenza in Italia. L'ennesimo smacco per il nostro Paese

Massimiliano Latorre e Salvatore Girone
Massimiliano Latorre e Salvatore Girone

Come volevasi dimostrare. Tutti hanno gongolato dopo le parziali anticipazioni del Tribunale internazionale dell'Aia sul rientro in Italia del fuciliere di Marina Salvatore Girone. Ma non avevano fatto i conti con l'India e non avevano neppure aspettato di leggere la sentenza in questione. I toni entusiastici si sono subito smorzati, ma bastava ascoltare il governo di New Delhi per capire che il rimpatrio del marò non sarebbe stato una marcia trionfale. L'India lo aveva detto chiaramente: «L'Italia non ha interpretato correttamente l'ordine del Tribunale avevano spiegato lunedì fonti del governo indiano -. Non è vero che il marine Girone è libero: le condizioni della sua libertà provvisoria devono essere stabilite dalla Corte Suprema» indiana. E così sarà.

I giudici arbitrali hanno infatti deciso che deve essere l'autorità giudiziaria indiana a stabilire le condizioni di rientro e permanenza in Italia di Girone. E lo hanno scritto chiaramente: «Il Tribunale arbitrale ritiene appropriate le condizioni, garanzie e procedure che sono state stabilite per il sergente Latorre», cioè la sua permanenza in Italia per motivi di salute, e suggerisce alla Corte Suprema indiana di adottare le stesse misure anche per il rientro in Italia del marò Salvatore Girone. «Queste potrebbero includere, tra le altre, le seguenti condizioni: l'Italia dovrà assicurare che Girone si presenti a un'autorità in Italia designata dalla Corte Suprema indiana a intervalli determinati dalla stessa Corte Suprema; Girone dovrà consegnare il suo passaporto alle autorità italiane e non potrà lasciare l'Italia senza il permesso della Corte Suprema indiana; l'Italia dovrà informare la Corte Suprema indiana sulla situazione di Girone ogni tre mesi». Una sentenza che non lascia adito a dubbi.

E allora perché tutti hanno cantato vittoria e gridato che Girone è libero quando non è così? Perché siamo un Paese di venditori di fumo e la nostra classe politica è maestra nel propagandare false verità o a strumentalizzare per il proprio tornaconto. Sarà un caso, ma ieri nessuno ha osato più parlare di libertà e di vittoria per il caso marò. Anzi, ingoiamo a piè leggero che un nostro soldato sia sottoposto in patria alle restrizioni dettate da un Paese straniero. È vero che abbiamo rinunciato da tempo alla nostra sovranità nazionale, ma farsi anche umiliare davanti al mondo è davvero troppo. E ci faremo sbertucciare ancora. Perché nel caso la corte arbitrale fra due anni decida che la giurisdizione sul caso marò sia indiana (improbabile perché si pronuncerebbe contro delle norme internazionali, ma ormai possiamo aspettarci di tutto), il nostro governo, come ha fatto precedentemente il premier Mario Monti, rispedirebbe i nostri militari in quel Paese dove i diritti sono un optional.

A poco servono le offerte di collaborazione e i peana del premier Matteo Renzi, che parla di «grande popolo indiano» e di amicizia tra i due Paesi. Un amico non si sarebbe mai comportato così e dovremmo cominciare a imparare a sceglierci gli amici, badando soprattutto ai nostri interessi nazionali. Ma è fiato sprecato. Intanto, i familiari dei marò si sono chiusi in uno stretto riserbo e non si sono mai fatti illusioni. E come potrebbero dopo questa tragedia durata più di quattro anni. Gli stessi parenti dei pescatori indiani rimasti uccisi hanno deciso di metterci una pietra sopra, forse perché ci sono dietro anche altre verità.

«Il sostegno che ci è arrivato da più parti ci ha dato speranza in questi anni ha detto Dora Jeraline, vedova di uno dei due pescatori Non insisto sul fatto che i marò italiani debbano essere processati e condannati. Io non mi oppongo: lasciate che tornino in Italia».

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