I democratici tentano di rimettere insieme i cocci dopo la batosta elettorale di Kamala Harris, che non solo ha perso la Casa Bianca, ma anche il voto popolare (per svariati milioni di consensi, e non succedeva dal 2004), e il Congresso potrebbe essere controllato completamente dai repubblicani se manterranno come sembra anche la maggioranza alla Camera dopo aver riconquistato il Senato.
L'entità della sconfitta di Harris contro Donald Trump ha gettato il partito nel caos, facendo capire che serve «una resa dei conti totale». Le interviste (anonime) con oltre una decina di membri della campagna della vicepresidente, strateghi, funzionari eletti e democratici degli stati in bilico rivelano un partito consumato dalla rabbia, dal dolore, dalle accuse e dall'auto-riflessione. Ritengono che si sia allontanato troppo dalla sua identità di garante dei più deboli per rappresentare le élite, mettono in discussione la decisione di Harris di concentrarsi sulla conquista dei repubblicani pentiti e moderati senza capire di avere problemi profondi con gli elettori della sua base e di come comunicare con la gente comune.
Secondo il senatore progressista del Vermont Bernie Sanders, «non dovrebbe sorprendere che un partito che ha abbandonato la classe operaia sia stato abbandonato a sua volta. Prima dalla classe operaia bianca, e ora anche da ispanici e afroamericani. Mentre la leadership dem difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole un cambiamento. E ha ragione».
Per il team della candidata dem, invece, «Joe Biden ha una grossa responsabilità nella sconfitta». In un momento di profonda frustrazione, viene puntato il dito sulla scelta dell'82enne presidente di rimanere in gara sino all'estate, quando non ha potuto fare altro che un passo indietro, ma ormai era tardi. «Il peso maggiore di questa sconfitta ricade su Biden - sostiene Andrew Yang, che si è candidato contro di lui nel 2020 per la nomination - Se si fosse dimesso a gennaio invece che a luglio, saremmo in una situazione molto diversa».
E mentre il firmamento di Hollywood piange in pubblico e in privato per la disfatta che ha segnato anche il flop degli sforzi di divi e celebrità mobilitate fino all'ultimo giorno, tra molte star sono gli strateghi democratici a fare da capro espiatorio.
Per il premio Oscar Adam McKay, autore di film satirici come Vice e Don't Look Up, il partito dell'Asinello «ha mentito per due anni e mezzo sul declino fisico e cognitivo di Joe Biden, ha rifiutato una convention aperta per scegliere un nuovo candidato, non ha mai menzionato sanità e fracking, ha abbracciato Dick e Liz Cheney e chiuso un occhio sui bambini di Gaza. Chi avrebbe potuto pensare che sarebbe stata una strategia vincente?».
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