Giulio Andreotti, il politico più longevo e misterioso della storia della Repubblica

È stato il politico italiano più potente, longevo e misterioso della Prima Repubblica. Per una parte dell'elettorato Andreotti era un uomo misericordioso e caritatevole, per un'altra era invece "Belzebù". Dalla sua lunga esistenza passa gran parte della storia italiana dal dopoguerra ad oggi (e non solo)

Giulio Andreotti, il politico più longevo e misterioso della storia della Repubblica

Ultimo senatore romano. Ultima eminenza grigia. Ultimo principe machiavellico. L’ultimo dei cesari. La Roma imperiale e papalina del Novecento, vive e muore in un solo nome: Giulio Andreotti. Il simbolo di un potere antico, quasi “divino” per legittimazione... il Sacro Romano Impero. Andreotti rappresenta una storia secolare che nel silenzio della sua leggenda ha continuato e continuerà a vivere nelle vie romane. Il personaggio è controverso, anzi stranissimo. Avvincente. Impenetrabile. Sagace. Un masterpice cinematografico. Il protagonista invisibile del Codice da Vinci. Custode di segreti come Jacques Saunièr Saint-Clair, gran maestro del Priorato di Sion. Cattura, affascina e intriga le nostre fantasie. Geniale, troppo geniale, imperterritamente unico, ma folcloristico nel suo eterno fascino esistenziale. Pungente e schermitore. Dalla fisionomia insolita: gobba leggendaria, passo felpato, incedere elegante, silenzioso. Sense of humor e proverbiali aforismi: “C’è qualcuno che ha cercato di seppellirmi prima. Qualcuno nel frattempo è anche morto e prego per lui; La cattiveria del buoni è pericolosissima; A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto; L’umiltà è una virtù stupenda. Ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi”.

Un formidabile indossatore di maschere. Un moschettiere gesuita che affonda il colpo quando meno te lo aspetti. Folgorante, gelido, inaspettato. Un dandy anticonformista, con proprie regole, limiti, eccessi e confini. La comparsa nel film Il Tassinaro di Sordi, lo stop al passaggio di Falcao all'Inter, il giallo Operazione via Appia. L’onorevole Trombetta, “Papà si ritrovò davvero con lui in un vagone del treno. E da lì nacque la gag” (Liliana de Curtis, figlia di Totò). Icona pop, più vicino a Oscar Wilde e Marilyn Monroe che a Giorgio La Pira e Papa Luciani. Terribilmente tramante e sfuggente. Misericordioso e devoto. Bonario e dolcemente spietato. Un illustrissimo cardinale cesaropapista al servizio di una République medicea. Tattico indiscusso ma statista discutibile.

Allievo del più grande politico italiano, Alcide De Gasperi. Un maestro, un ‘padre’, forse tradito. Sette vite come i gatti, un po’ come i suoi governi. Una lunga esistenza ad avvolgere il mito, accresciuto dal perdurare del suo regno: “Il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive” (F. Dostoevskij). Volpe gattopardesca da romanzi gialli con delitti passionali a sfondo politico. Lucente e oscuro. Sempre presente, quanto assente. C’è e non c’è. Visibile e invisibile. Confondibile e inconfondibile. Lascia piccolissime tracce, ma cancella quelle più compromettenti. Tutto gli è riconducibile ma niente o poco che confermi i suoi coinvolgimenti. Si muove con estrema astuzia, delicatezza, sottigliezza. Eterno trattativista, storico del compromesso, giocatore su più tavoli (anche in campo diplomatico) ha sempre avuto il dono non tanto della lungimiranza quanto dell’agire momentaneo, istantaneo. Una mente fredda e lucida, tanto capace quanto pericolosa. Già da ragazzo, Alcide De Gasperi, osservandone pregi e difetti, ebbe a dire: “È un ragazzo talmente capace a tutto che può diventare capace di tutto”. Sottosegretario con De Gasperi, ministro della Repubblica (oltre 30 incarichi ministeriali), presidente del Consiglio sette volte e senatore a vita, nominato da Cossiga.

Una corrente al suo servizio debole di numero ma temibile e ‘armata’ quanto l’esercito prussiano di Federico Gugliemo I: Franco Evangelisti, Paolo Cirino Pomicino (detto O Ministro), Vito Ciancimino, Claudio Vitalone, il cardinale Fiorenzo Angelini (Sua Sanità, essendo stato ministro della Sanità della Santa Sede). Nino Cristofori, Salvo Lima, potete e ricco politico siciliano; Vittorio Sbardella (detto lo Squalo), Giuseppe Ciarrapico… e poi tanti, tantissimi insospettabili andreottiani sparsi tra i banchi di maggioranza e opposizione. “Gli andreottiani sono ovunque”, ripetevano con aria sospetta a ogni decisiva votazione i più autorevoli esponenti dei partiti politici, eppure lui se ne stava lì, seduto, quasi immobile, aspettando il verdetto ‘senza batter ciglio’. Un diplomatique alla Lamberto Scannabecchi (Papa Onorio II) ma abile e sprezzante del pericolo quanto Gioacchino Murat. Brillante a intavolare storiche triplici alleanze (CAF), quando il momento lo richiedeva.

Illuminante la verosimiglianza riscontrabile nella Lettera ai Dieci (N. Machiavelli, del 26 giugno 1502 ): “ […] mai si riposa né conosce fatica o periculo: […] le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con una perpetua fortuna” (il ritratto è di Cesare Borgia). Strappava simpatie nascoste anche tra i comunisti, tanto che il governo di emergenza del 16 marzo del 1978 fu lui a presiederlo. Forse la simpatia che affascina i vincenti. O forse l’accattivante sex appeal di scuola democristiana, la migliore nella caccia di preferenze, come sosteneva il custode andreottiano Franco Evangelisti. E se Andreotti non era andreottiano, come lui sempre si è dichiarato, allora potremmo dire che andreottiano era lui, l’amico, il factotum Franco, l’architetto dell’andreottismo. Il geometra degli equilibri politico-partitici della corrente Primavera. Celebre è rimasta la battuta “a Fra’ che ti serve” con cui Gaetano Caltagirone salutava a ogni chiamata l’amico Franco che al liceo fu compagno di classe di Tonino Tatò, storico segretario di Berlinguer. Il finale tra Andreotti ed Evangelisti fu però tragico, con il secondo che iniziò a collaborare con i magistrati parlando anche dei rapporti tra l’eterno Dc e la mafia.

Un legame che sfiora Andreotti ogni volta che se ne sfoglia la sua lunga vita tanto da far dire a Ciccio Ingrassia (sul famoso incontro Riina-Andreotti): “Non lo so se si sono incontrati. Ma stia tranquillo che se si sono incontrati si sono baciati …”. Ci sono mille anime, volti, inganni, innumerevoli e indecifrabili sospetti che ruotano attorno a questa figura politica. Chi è stato e chi è Andreotti forse alla fine resterà uno dei più grandi misteri italiani. L’uomo dei misteri rimarrà avvolto dal mistero. Forse da sempre il suo scudo crociato difensivo. Ma Andreotti non è solo il simbolo del potere: un potere chiuso, clientelare, oligarchico, teocratico, cortigiano e medioevale.

Andreotti è il pontiere tra Italia e Vaticano, il mediatore tra occidente e mondo arabo, l’uomo di fiducia degli Stati Uniti a cui Kissinger riconosceva luci e ombre nel suo operato. Quello di Andreotti è un filone di pensiero che attraversa secoli di storia: le lotte di investitura e il concordato di Worms, i vescovi conti e sanguinari, le leggende di Rennes-le-Chateau, le diplomazie, il richelieunesimo e il machiavellismo, la guerra fredda, la caduta della Monarchia e la Prima Repubblica. Le notti più lunghe e inquietanti della politica italiana. Un principe prelato, investito di poteri temporali e “spirituali” (inteso in senso profondamente laico e figurato), perfetto ambasciatore plenipotenziario, accostabile per intelligenza e strabilianti mosse tattiche al Giulio Cesare del De Bello Gallico. Un’intelligenza fine e acuta.

Un linguaggio romanesco accurato e lineare. Un parlatore supremo, ma mai un oratore. Artefice di una politica cinica e immobile, quanto povera e debole. Spregiudicato all’estremo ma sempre composto e garbato nel suo gioco di conquista del gradino più alto, della riconoscenza dovuta e del potere più afrodisiaco. Andreotti è nato il 14 gennaio 1919 quando presidente del Consiglio del Regno d’Italia era Vittorio Emanuele Orlando, anche se lui amava precisare “nel 1919 sono nati il Ppi di Sturzo, il fascismo e io. Di tutti e tre sono rimasto solo io”, ed è morto il 6 maggio 2013 con presidente del Consiglio della Repubblica italiana Enrico Letta, nipote di quel Gianni, forse unico vero erede di parte dell’eredità romana di Andreotti.

Quando se ne è andato aveva 94 anni, con alle spalle un ‘regno’ parlamentare durato ben 68 anni, ma considerando che è “postumo di se stesso” e conoscendo il personaggio non stupiamoci per eventuali colpi di scena. La storia – in fondo - continua.

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