Il corpo di Giovanni Falcone è saltato in aria a Capaci, il giudice Giovanni Falcone è stato ammazzato un po' alla volta. Dagli articoli di Repubblica («È un guitto, un ansioso esibizionista dominato da quell'impulso irrefrenabile a sciorinare sentenze sui giornali o in tv») e Unità, dai processi mediatici orchestrati dai suoi nemici come Leoluca Orlando, dall'Anm e da un Csm politicizzato e ostaggio dei veti del Pci che decise di negargli l'ennesima sacrosanta poltrona di Procuratore nazionale antimafia, la struttura di supervisione gerarchica sulle procure che lui aveva inventato, dopo avergli negato il vertice dell'ufficio istruzione di Palermo nel 1988 e il Csm, ufficialmente perché il giudice era «amico» di due personaggi che le toghe rosse non hanno mai digerito, Giulio Andreotti e Claudio Martelli.
In realtà Falcone accusava una certa Antimafia «più parlata che agita», pensava che i veri mafiosi fossero nella Rete di Orlando, come rivela il cablogramma dell'intelligence Usa riportato nel libro La Seconda Repubblica. Origini e aporie dell'Italia bipolare (Rubbettino) di Francesco Bonini, Lorenzo Ornaghi e Andrea Spiri, aveva capito che senza la separazione delle carriere la riforma della giustizia del 1989 avrebbe lasciato praterie ai pm. E andava zittito.
«Chi come me richiede che pm e giudici siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera - disse a Mario Pirani nel 1991 il giudice - viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato e nostalgico della discrezionalità dell'azione penale». E soprattutto «Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello». Eccola, una delle pallottole di carta sparata sull'Unità da Alessandro Pizzorusso, al Csm su indicazione del Pci e mentore del membro laico indicato dal Pd Roberto Romboli, la cui eleggibilità a Palazzo de' Marescialli è appesa a un filo. E ancora: «Non si sa bene se è Falcone che offre la penna a Martelli o Martelli che offre la sua copertura politica», scriveva Pizzorusso il 12 marzo 1992, un pugno di giorni prima di Capaci. «Ero negli Usa con Liliana Ferraro, sua collaboratrice. Falcone ci telefonò e ci lesse l'articolo al telefono, era molto ferito e molto arrabbiato, soprattutto per le minacce espresse contro chi l'avesse votato in plenum», ricordò a Ermes Antonucci sul Foglio qualche tempo fa l'amico Giuseppe Di Federico, allora consulente di Martelli. Pizzorusso nel pezzo avvisava i togati che se avessero votato per lui in plenum avrebbero perso molti voti tra i colleghi che da lì a breve avrebbero dovuto eleggere i nuovi vertici dell'Anm. «Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe meglio», si sfogò una volta Falcone come scrive nel libro I disarmati Luca Rossi.
A distanza di molti anni c'è chi gli ha chiesto scusa come Michele Santoro: «Pensavo si fosse fatto strumentalizzare. Ho sbagliato», disse qualche mese fa. Meglio tardi che mai.
A leggere invece oggi questa frase vengono i brividi: «Se Falcone non farà carriera, non sarà solo colpa del fato o di subdole iniziative dei suoi avversari», fu l'epitaffio prematuro di Pizzorusso. E il Pd che rivendica le spoglie mortali di Falcone ha deciso di nominarne il suo discepolo preferito. Una mossa che sembra l'ennesimo chiodo sulla sua bara.
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