Giustizia negata persino a Borsellino

Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l'ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino

Giustizia negata persino a Borsellino

Alla fine giustizia non è stata fatta. Il paradosso è che stiamo parlando di chi la missione della giustizia l'ha interpretata nel senso più alto, per etica e coraggio pagati con il sacrificio della vita, Paolo Borsellino. La sentenza del tribunale di Caltanissetta smentisce la tesi dell'omonima procura, da un depistaggio gigantesco e inaudito siamo passati a tre ex poliziotti a cui non viene riconosciuta l'aggravante mafiosa, uno assolto e per due calunnia in prescrizione. Erano imputati di aver spinto il controverso pentito Scarantino a formalizzare le bugie che hanno mandato in carcere degli innocenti e ci hanno allontanato per anni dalla verità. E proprio la verità sembra la grande assente di questo anniversario importante, trent'anni dalla strage di Capaci, un anniversario in cui chi sa dovrebbe dire qualcosa, in cui si dovrebbe fare un passo in avanti rispetto alle ombre che hanno accompagnato errori nelle indagini e inchieste sbagliate. Non voglio tirar dentro questa polemica i familiari delle vittime, il cui bisogno di verità rimane ineccepibile al di là delle tifoserie ideologiche. Il depistaggio, che ha animato con veemenza per anni il circuito giustizialista nostrano, non ha trovato una dimostrazione formale giudiziaria. Gli addetti ai lavori in realtà non si attendevano nulla dal processo di Caltanissetta, con agli attori di primo rilievo già passati a miglior vita, dal questore la Barbera, al procuratore Tinebra, all'ex capo della polizia Parisi. Ripeto, dire che non ci sono state cose inquietanti in questa storia non si può. Il divieto di parcheggio non scattato sotto la casa della madre di Borsellino dove fu invece lasciata la 126 imbottita di tritolo, l'agenda rossa sparita, i troppi personaggi strani presenti sulla scena del crimine e arrivati troppo presto. Soprattutto l'aver creduto per anni più che a una versione a uno schema, che quello fosse un delitto di mafia semplice, per di più compiuto da cosiddetti pesci piccoli e poco strutturati. Come per Falcone la mafia fu committente e manovalanza, ma ancor più che in Falcone rimane uno iato, uno spazio tra la cronaca e la verità riempito dal mistero e dal buio. L'unica cosa formalizzata in sede giudiziaria è «l'ipotesi che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». Sono parole che purtroppo vanno bene anche per altre tragedie italiane. Le ricostruzioni storiche sono una cosa, e ognuno in quello spazio nero indistinto può mettere servizi segreti, pezzi di Stato e di politica corrotti, massoneria, poteri forti internazionali. Poi però c'è la giustizia, che ha i suoi linguaggi, le sue necessità dimostrative, le sue verifiche, direbbe forse il grande investigatore Borsellino. Rileggendo la sua storia straordinaria di uomo e magistrato colpisce non tanto il livore dei suoi nemici, ma il non amore dei suoi colleghi, fino ad ostacolarne il lavoro e la serenità interiore, fino all'isolamento, come con Falcone.

E un giudice che rimane solo, forse tradito come avrebbe confessato Paolo alla moglie prima della fine, è già con un piede nella morte, morale, prima dell'omicidio materiale. Giustizia non è stata fatta, mai, per Borsellino.

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