Ci mancava solo che i familiari del povero Eitan iniziassero a litigare su chi fra i due «rami» (quello materno, ebraico; e quello paterno, cristiano) sia il più idoneo per «gestire» il suo futuro. Una «guerra di religione»? Speriamo di no. Ma temiamo di sì. Certo è che questa coda velenosa (verrebbe da dire faida, ma forse sarebbe offensivo) il bambino di 7 anni che lo scorso 23 maggio ha perso in un istante mamma, papà, fratellino e nonni, non se la meritava. Per lui, prima lo choc terrificante della funivia crollata sul Mottarone; ora lo stress (che poteva, e doveva, essergli risparmiato) di parenti contrapposti, in lotta «per il suo bene». Almeno, si spera. Intanto volano parole grosse, sgradevoli: «È trattenuto in ostaggio dalla zia alla quale è stato affidato tre mesi fa. Da allora hanno preso il controllo del suo corpo, della sua mente e della sua anima, proprio per tenerlo in Italia». A parlare (con tanto di conferenza stampa) sono i familiari israeliani di Eitan Biran, unico sopravvissuto di quella maledetta cabina venuta giù per volere del destino, ma soprattutto a causa dell'imperizia criminale degli uomini.
Autore dell'atto d'accusa contro i parenti italiani del bambino è Ronen Dlayahu, legale di Gali Peri (la sorella della madre defunta del piccolo) e del marito, Ron, che vorrebbero «adottare il bimbo orfano e riportarlo nel suo Paese di origine: Israele».
Da Gerusalemme la zia materna di Eitan alza la voce nella causa legale che la contrappone ad Aya (sorella di Amit Biran, il padre defunto del bimbo), residente in Italia e presso la quale l'orfano è stato trasferito dopo essere stato dimesso dall'ospedale: un nucleo familiare con altri bambini coetanei di Eitan che hanno creato un clima di grande affetto e intesa. Di pare opposto la zia materna che invece lancia un duro j'accuse contro la sua «antagonista» italiana: «Stiamo lottando per un motivo: Eitan è stato rapito da familiari che non sono vicini a lui. Dal 23 maggio, data di affidamento di Eitan alla zia paterna, ci è stato impedito ogni contatto col bimbo». I parenti residenti nel nostro Paese vengono accusati di «aver preso decisioni sbagliate, che non vanno nell'interesse di Eitan» e che «aggiungono altro dolore alla sua tragedia». «Eitan ha invece diritto di vivere la vita che i suoi genitori volevano per lui: crescere in Israele e frequentare una scuola ebraica in quanto ebreo invece di una scuola cattolica in Italia, una perdita di tempo», le parole dell'avvocato Dlayahu. Che aggiunge: «La zia italiana sta rilasciando false dichiarazioni. Noi abbiamo avviato la procedura di adozione, riporteremo Eitan a casa sua. Non intendiamo scomparire né possiamo rimanere nascosti. Tra qualche anno Eitan chiederà informazioni sul resto della famiglia ed è importante dargli la prova che siamo sempre qui per lui. Ha già perso una famiglia e non può perderne un'altra».
Inoltre «si deplora di non aver finora visto una parte neutrale che esamini la sorte di Eitan in una prospettiva mentale o sanitaria»; e infine «si teme che la zia paterna possa prendere possesso dei soldi spettanti al nipote». La replica dei legali di Aya Biran: «Dichiarazioni surreali. Sbalorditi da tanta acrimonia e falsità».
No,
Eitan non merita tutto questo. E, anche se ha solo 7 anni, ha il diritto di esigere il rispetto che si deve agli adulti. I quali stanno facendo una pessima figura. Con l'aggravante di essere i suoi «cari». O presunti tali.
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