Dopo la Gregoretti, ecco la Open Arms. Matteo Salvini se la deve vedere per la seconda volta con l'accusa, pesantissima e probabilmente unica nell'Occidente, di sequestro di persona. Ogni nave un procedimento, nato da un'autorizzazione a procedere del Parlamento, e un nugolo di polemiche. Dunque, il gip Lorenzo Jannelli ha fissato l'udienza preliminare per il 12 dicembre e così la Sicilia diventa nelle prossime settimane il crocevia della politica giudiziaria italiana. Il calendario è fittissimo: a Catania il giudice, che vuole ricostruire i fatti nella loro interezza, ha convocato per il 20 novembre il premier Giuseppe Conte e gli ex ministri Danilo Toninelli e Elisabetta Trenta, per il 4 dicembre poi Luciana Lamorgese, che ha preso il posto di Salvini al Viminale, e Luigi Di Maio.
Subito dopo, il 12 dicembre, appuntamento a Palermo per capire cosa accadde esattamente nell'agosto 2019, quando Salvini ingaggiò l'ennesimo braccio di ferro con un'Ong, bloccando infine la Open Arms nel mare di Lampedusa con 151 migranti a bordo.
Rispetto alle altre vicende passate al vaglio della magistratura - appunto i casi Gregoretti e Diciotti per cui il Parlamento negò l'autorizzazione a procedere - qui ci sono due differenze: l'Ong spagnola presentò ricorso al Tar e lo vinse ottenendo sulla carta il sì alla discesa dei profughi.
In realtà nemmeno questa mossa sbloccò la situazione; fu l'intervento del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio a chiudere la partita. Patronaggio dispose un'ispezione, salì a bordo, sequestrò la Open Arms e fece scendere tutti. Dopo uno stallo di 19 giorni.
Per la magistratura il reato c'è tutto e non c'è copertura politica che tenga. Ma il tentativo di riscrivere per via giudiziaria la politica salviniana appare poco o nulla convincente, una scivolosissima scorciatoia per togliere dal campo il leader della Lega, e può avere effetti imprevedibili.
È quel che accade a Catania dove ora il premier rischia di essere risucchiato in questa saga sempre più surreale: il 20 novembre Conte dirà probabilmente che lui non era d'accordo con la linea dura del suo ministro degli Interni. Ma in questo modo si espone proprio sul piano del diritto e rischia di finire nel registro degli indagati per concorso nel reato che avrebbe dovuto impedire.
Insomma, si profila un pasticcio: il disco verde concesso frettolosamente alla magistratura potrebbe andare oltre le intenzioni dei parlamentari.
Certo, si può contestare anche in modo energico quel che Salvini ha fatto sulla base dei decreti sicurezza. Una discussione anche feroce a Montecitorio o Palazzo Madama ci sta tutta. Altra cosa è affidare alle toghe il compito di stabilire se ci sia stato un reato e punirlo. Un passaggio, comunque la si pensi, sproporzionato rispetto a quel che è successo nel Mediterraneo, comunque da affrontare nel perimetro del Palazzo.
È andata così per la Diciotti: secondo il Senato Salvini agì per tutelare l'interesse pubblico e per questo Palazzo Madama ha fermato la mano dei giudici sulla soglia del Parlamento. Ma poi, capriola dopo capriola, lo stesso Senato ha cambiato metro di giudizio e ha fatto entrare due volte i magistrati nell'emiciclo. Anche se, al fondo, le tre vicende presentano analogie impressionanti e dunque non è chiaro perché un no si possa trasformare in un doppio sì. Facile leggerlo in chiave strumentale e, quel che è più grave, come una rinuncia a risolvere nel dibattito conflitti che non dovrebbero deragliare fra arringhe, requisitorie e condanne.
Per Salvini si
annuncia quindi una sfilza di udienze. A Catania il leader della Lega si è destreggiato fra le diverse interpretazioni: «Non ho agito da solo ma anche Conte e gli altri sono innocenti». Una chiamata in correità tutta politica.
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