L a giornata dei Cinque Stelle corre ancora una volta sul filo della contraddizione. E allora sì alla fiducia alla Camera sul Dl Aiuti mentre i contiani alzano i toni contro il governo. Da un lato ci sono i fatti, con il M5s che non mette a rischio Draghi. Dall'altro le parole, gli avvertimenti bellicosi. «Votiamo la fiducia al governo, noi vogliamo collaborare col governo. Il voto finale al testo alla Camera non lo possiamo condividere. E al Senato vedremo», parte Giuseppe Conte. A Montecitorio, dunque, i grillini si asterranno sul voto del testo. Anche se aumenta il numero dei deputati che non sono convinti di questa scelta. «Non tutti ce la sentiamo di uscire dall'Aula, molti di noi il testo vorrebbero votarlo, soprattutto perché si tratta di un provvedimento che contiene 23 miliardi di euro di aiuti per famiglie e imprese», confessa un pentastellato in Transatlantico. Alla Camera i governisti sono più forti e rappresentano circa metà del gruppo, ma probabilmente alla fine non ci saranno fratture sull'Aventino sul Dl Aiuti.
I pericoli per la tenuta della maggioranza possono arrivare da Palazzo Madama, come fatto notare minacciosamente da Conte. I senatori sono in curva, modalità torcida sudamericana. Ed è fondata l'ipotesi di un non voto sul decreto del governo che stoppa le deroghe al Superbonus e dà il via libera al termovalorizzatore a Roma. «Solo che al Senato l'astensione equivale al voto contrario», sottolineano le colombe di Montecitorio. E c'è dell'altro. L'avvocato di Volturara Appula con il suo «vedremo» fa la faccia feroce, ma l'esibizione di forza nasconde una debolezza. Ormai gli oltranzisti sono più realisti del re. Tra i ribelli, infatti, cominciano a spuntare le prime critiche all'attendismo del leader. L'istantanea è quella di un Conte che fatica a controllare i gruppi in entrambe le camere. Tra i mille veleni che esalano da tutte le parti, c'è da registrare una teoria secondo cui l'ex premier, in realtà, non vorrebbe uscire anzitempo dal governo. E il motivo è legato ad Alessandro Di Battista. «Se il M5s andasse all'opposizione tornerebbe subito Di Battista e Conte ha paura di essere messo in ombra», spifferano i maligni. Rischierebbero di essere eclissati dal ciclone Dibba anche i cinque vicepresidenti, a partire proprio dai più barricaderi, Riccardo Ricciardi e Paola Taverna. Il giurista pugliese teme che l'ex deputato - spinto dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio - stia preparando il terreno per prendersi il Movimento, prima o dopo le prossime elezioni politiche. Quel che è certo è che un'uscita dal governo accelererebbe la «dibattistizzazione» del M5s.
Intanto è iniziato un derby tra i due dirigenti stellati più inclini allo strappo. Negli ultimi giorni è molto in vista Ricciardi, che sta cercando di tessere la sua tela facendo scouting tra i parlamentari indecisi, così da convincere Conte a mollare Draghi. E, a sorpresa, in questa fase di tensione con Palazzo Chigi, il deputato toscano è diventato il consigliere più ascoltato dal presidente del M5s. Così Ricciardi si è attirato le antipatie di Taverna, che non ci sta a rinunciare al ruolo di pasionaria e infatti si sta dando da fare per mostrarsi più ortodossa del suo competitor.
Restano in ombra Michele Gubitosa e Mario Turco, decisi a seguire ogni decisione di Conte. Il problema è che l'avvocato prende tempo, decide di non decidere. E su questo sono d'accordo sia i governisti sia gli oltranzisti.
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