Sorpresa: tutti si aspettavano di vedere Ismail Haniyeh rappresentare in giacca e cravatta al Cairo i terroristi di Hamas insieme ai negoziatori del Qatar, egiziani, americani, israeliani per la trattativa sui 136 ostaggi. Tutto il mondo in una farsa diplomatica alle prese con un'organizzazione terrorista. Questo, è uguale: ma diverso è come Sinwar aveva preparato l'incontro. Come un astuto imbroglione. Era infatti pronto al Cairo, sembra da due mesi, per riferire direttamente a lui forse con un complicato sistema di telefoni satellitari, un inviato personale: né Abu Marzuk né Osama Hamdan, i soliti, ma un personaggio misterioso che deve riferire e decidere con lui.
Decidere che cosa? Sui negoziati si sanno solo due cose certe miste a parole: Israele vuole trattare per tutti gli ostaggi, e Hamas vuole trattare per tutto il tempo. Il governo israeliano è stretto in una morsa di aspettativa ansiosa e dolorante, con le famiglie dei rapiti che ormai hanno preso la strada del blocco dei camion degli aiuti umanitari. Ma solo il 35% della popolazione in Israele vuole vedere una trattativa che preveda il blocco della guerra per smantellare Hamas. Il gruppo terroristico è sul confine della sua distruzione, ma Sinwar gioca le ultime carte che gli fanno sperare di non dover lasciare come retaggio la shahada, di martirio per l'Islam, ma anche di afferrare un lembo del gioco del potere.
Dunque: per Israele si parla di alcune settimane di intervallo, in cui Sinwar compirebbe vari tipi di rilascio (cittadini, soldatesse, soldati, cadaveri) in cambio di un numero esorbitante di terroristi incarcerati. Fin qui Israele forse ci starebbe, anche se ha pessima esperienza con le migliaia di terroristi liberati in altre occasioni, ma Sinwar vorrebbe anche, sembra, i terroristi della Nukba, quelli che interrogati della polizia spiegano che hanno bruciato bambini, stuprato e ucciso perché così gli hanno ordinato, o perché gli davano 10mila shekel e un appartamento. Questo per Netanyahu non è facile, ma forse è superabile. Tuttavia Sinwar adesso chiede di rendere l'interruzione pari, sempre «sembra», a una «Hudna» tregua, di dieci anni che renderebbe impossibile la ripresa della guerra; e chiede che Israele si impegni per quello che chiama uno «Stato Palestinese» con Hamas alla testa. Cioè di restare al potere. Sono condizioni impossibili per un Paese che non può conservare il terribile nemico deciso a seguitare a uccidere e a conquistare definitivamente anche l'West Bank. È una guerra di sopravvivenza. Le immense contraddizioni che attraversano queste giornate dimostrano quanto poco si capisca e si preveda di questa crisi che ormai è un gomitolo che sta avvolgendo il mondo intero. Probabilmente la richiesta di uno Stato palestinese alla fine di tutta la vicenda è una specie di funambolica «captatio benevolentiae» rivolta a Biden: Blinken ha chiesto al Dipartimento di Stato una proposta per uno stato palestinese demilitarizzato, Biden mostrerebbe così di guardare a un futuro pacifista. È per questo che fa pensare il viaggio del Ministro per gli affari strategici Ron Dermer, da Israele alla Casa Bianca in questi giorni: indica che insieme ai rapiti si discute il futuro della Striscia, e con la proposta americana sui palestinesi anche la chiamata in causa dei vecchi alleati dei patti di Abramo, e l'Arabia Saudita che ha promesso di impegnarsi.
Dallo svolgersi della guerra, si sa per certo che Sinwar se la passa male, che sotto terra a Khan Yunis sente il rombo dei carri armati e delle esplosioni, mentre i suoi a Gaza urlano per le strade che lui è un vigliacco che «mangia carne mentre loro digiunano».
Israele va lenta nella guerra perché teme per gli ostaggi sotto terra, ma quanto più cresce la presenza militare, tanto più Sinwar ha una ragione per fermare i tank almeno qualche settimana. Troppa guerra, però può spingerlo a uccidere ancora. La nebbia è fitta.
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