Un incontro che rompe il tabù Però il «mea culpa» non basta

Il vertice in Vaticano sulla pedofilia voluto da Francesco scuote le coscienze. Resta molto da fare

di Stefano Filippi

P aradossalmente, l'intervento più efficace durante il vertice vaticano per la protezione dei minori è stato pronunciato fuori dai Sacri palazzi. È la testimonianza di don Vinicio Albanesi, 76 anni, fondatore della Comunità di Capodarco che assiste disabili, minori abbandonati, stranieri, tossicodipendenti. A Tv2000 don Albanesi ha rivelato di avere subito abusi in seminario, ma di avere voluto diventare ugualmente prete perché il bene che gli mostravano altri sacerdoti era più forte del male inflittogli dai suoi superiori. All'epoca parlare non sarebbe servito. Invece, ha aggiunto don Albanesi, «bisogna reagire guardando all'orizzonte in termini solari. Essere preti significa diventare come Gesù Cristo che ha aiutato i bimbi, i ciechi e gli zoppi, che ha guarito e non provocato ferite. Significa anche imparare a perdonare».

Per molti credenti, l'incontro voluto da papa Francesco è stato un pugno nello stomaco. Sentire le agghiaccianti testimonianze dei soprusi inflitti non è appena una ferita, ma un favore fatto ai nemici della Chiesa. Per chi invece guarda alla Chiesa dall'esterno, i quattro giorni di lotta agli abusi sono sembrati un atto di penitenza collettivo privo di conseguenze concrete. In effetti, il summit non si è concluso con decaloghi o nuove regole da imporre a vescovi e rettori di seminario. O meglio, è stata ribadita la regola di sempre, quella che fra 10 giorni, il Mercoledì delle ceneri, verrà ripetuta a ogni fedele che andrà a messa per l'inizio della quaresima: convertitevi.

Prima che un inasprimento delle pene per le tonache che commetteranno abusi (che comunque dovrà essere introdotto), il papa ha indicato la strada del cambiamento interiore. Nel discorso conclusivo Francesco ha ringraziato sacerdoti e religiosi che spendono la vita per testimoniare la fede ed educare cristianamente i ragazzi loro affidati dalle famiglie. Sono loro l'esempio cui guardare, come ha detto don Albanesi. Da questi quattro giorni l'immagine che resta è quello del «mea culpa» ecclesiastico, di un'operazione trasparenza, di una Chiesa che non si trincera più dietro le statistiche per minimizzare il fenomeno ma che guarda le persone, prende sul serio la sofferenza delle vittime e almeno nelle intenzioni applicherà la mano pesante contro i responsabili.

Papa Francesco ha messo in gioco tutta la sua autorità. Ma adesso tocca alle Conferenze episcopali, alle strutture della Curia e ai vescovi continuare il percorso per dare risposte concrete e immediate. Del cambiamento non devono restare solamente gli appelli.

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