Il decreto Rilancio prevede l'assunzione di 9.600 infermieri di famiglia. Ma non inventa niente. Anzi, quegli infermieri avrebbero già dovuto esserci da un pezzo. E di sicuro avrebbero fatto la differenza nella gestione dell'emergenza. A prevederli era il Patto per la salute 2019-20121, approvato dalla conferenza Stato regioni alla fine del 2019 e applicato solo il parte proprio per la pandemia.
Non servono nuove leggi e nuove programmazioni: tutte le soluzioni per la fase 2 erano già scritte da mesi. A dirla tutta però, gli infermieri di famiglia necessari non sarebbero solo 9.600 ma 21.400, di cui almeno 3.487 in Lombardia. Soprattutto se si considera che i malati cronici in Italia sono 24 milioni.
Se il «rilancio» fosse partito prima, avremmo avuto più assistenza sul territorio, non tanto per i malati Covid (per cui sono entrate in azione le squadre speciali) ma per i malati ordinari che in questi mesi sono stati quasi totalmente trascurati dalla sanità, si sono visti rinviare visite controlli e sono tutt'ora in attesa di assistenza. E molte diagnosi di coronavirus sarebbero state formulate ben prima che il quadro si aggravasse. Di conseguenza anche gli accessi alla terapia intensiva sarebbero stati meno violenti.
In Friuli, dove l'infermiere di famiglia esiste già da anni, portando le cure a casa dei malati e non i malati negli ospedali, si è sanato un male ormai consolidato nel nostro sistema sanitario: l'abuso del pronto soccorso. Gli accessi inopportuni, i cosiddetti codici bianchi, sono calati del 20%. E se solo l'infermiere a domicilio fosse già stato istituito prima del 20 febbraio, giorno dell'inizio della catena dei contagi in Lombardia, avremmo da subito alleggerito il sistema sanitario senza dover aspettare che la gente avesse paura di andare al pronto soccorso per ridurre le richieste inappropriate. Anche i medici di famiglia avrebbero avuto più tempo per dedicarsi alle emergenze vere e i pazienti non avrebbero affollato le sale d'attesa riducendo i contagi della prima metà di marzo.
Sia durante l'emergenza sia dopo, l'infermiere assisterà a domicilio le persone sottoposte a ventilazione artificiale, nutrizione enterale attraverso sondino (Peg) e parenterale con dispositivi intravenosi, portatori di catetere vescicale, persone in cure palliative e in fase terminale. Oppure con ferite che necessitano di cicli di medicazioni. Non solo, una volta a regime, si occuperà anche del territorio, lavorando in ambulatorio. Ancora da definire il contratto. «Potrà essere dipendente Asl, ma nulla vieta di pensare a una collaborazione con liberi professionisti a partita Iva» aveva spiegato Nicola Draoli, componente del Comitato centrale della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri (Fnopi) durante l'audizione alla Commissione Igiene e Sanità del Senato del 28 gennaio parlando del disegno di legge che prevedeva l'istituzione dell'infermiere di famiglia.
La nuova figura aiuterà, un po' in ritardo, a risolvere l'eterna carenza di infermieri. Rapportando i numeri all'emergenza Covid, gli standard indicano che sono necessari tre infermieri per ogni posto di terapia intensiva e due ogni posto letto di terapia sub-intensiva richiedendone quindi almeno 17mila in più. Ogni infermiere dovrebbe assistere in media non più di sei pazienti per ridurre il rischio di mortalità del 20-30%, eppure ci sono regioni dove il rapporto raggiunge anche uno a 16 e comunque non si scende sotto uno a 9.
Dal 2014 gli infermieri di famiglia sono infatti presenti a macchia di leopardo in diverse aree del Centro-Nord. Qualche sperimentazione è in corso in Lombardia, Piemonte, Toscana e Lazio ma gli investimenti del governo potrebbero rendere la figura una presenza stabile ovunque.
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