"Lì la democrazia imparò a battere i fanatismi"

Lo storico Chiarini: "Quella disfatta diede agli Usa una forza morale che nessuno si aspettava"

"Lì la democrazia imparò  a battere i fanatismi"

«Ieri, 7 dicembre 1941, una data che verrà ricordata come il giorno dell'infamia, gli Stati Uniti d'America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati dalle forze aeree e navali del Giappone». Sono entrate nella storia le parole con cui il presidente Franklin Roosevelt ha informato il Congresso che 353 aerei da guerra, lanciati da sei portaerei del Sol Levante, avevano appena sferrato un attacco mortale alla base navale di Pearl Harbor, nelle Hawaii, principale porto militare americano nel Pacifico. Morirono 2.400 soldati Usa, oltre 1.200 rimasero feriti e un intero popolo si rese conto che la Seconda guerra mondiale non riguardava solo l'Europa. L'offensiva giapponese cambiò le sorti della Guerra, trascinando nel conflitto gli Stati Uniti. La cerimonia pubblica di commemorazione per i 75 anni della tragedia ha messo una «pietra tombale su un episodio doloroso che ha segnato per decenni i rapporti tra Tokyo e Washington», dichiara al Giornale Roberto Chiarini, docente ordinario di Storia contemporanea all'Università statale di Milano. Anche se alcuni interrogativi restano ancora senza risposta.

Cinque corazzate e due cacciatorpediniere distrutti, 188 aerei annientati e altri 155 resi inservibili. I giapponesi colpirono nel segno.

«Il loro obiettivo era minare alla base la potenza reattiva degli Usa nel Pacifico. Nell'immediato un grande ko, ma sappiamo tutti quanto è stata letale la reazione americana».

Al Giappone conveniva inimicarsi un paese potente come gli Stati Uniti?

«No, ma bisogna leggere questo attacco nel quadro dell'espansionismo aggressivo giapponese. Già nel 1931 era cominciata l'invasione della Manciuria. Poi quella della Cina. Dopo toccò al Golfo del Tonchino, alle Filippine, all'Indocina. Il Giappone peccò di avventurismo».

Eppure sapeva di andare contro gli interessi Usa...

«Sì, ma se oggi tutti capiscono che le sorti della guerra sono state determinate dalla soverchiante potenza industriale degli Stati Uniti, allora nessuno pensava che potessero sostenere un conflitto».

Perché?

«Le società totalitarie avevano creato una macchina infernale, schiavista ma efficiente. La mobilitazione emotiva dei popoli era impressionante. Chi pensava che una democrazia potesse fare lo stesso? Washington invece riuscì a concentrare tutte le energie produttive del paese, ma aveva bisogno di una scintilla che convincesse l'opinione pubblica».

Non crederà anche lei alla teoria complottista secondo cui Roosevelt non fece informare volutamente Pearl Harbor in tempo per avere una scusa e intervenire in guerra?

«Nessuno storico ci crede. Ma è chiaro che Roosevelt, a capo di una grande democrazia, aveva bisogno di farsi dichiarare guerra. Non si può dire fosse complice, però sapeva di dover contrastare Hitler e si aspettava l'irreparabile».

Dietrologie a parte, il Giappone violò le regole di ingaggio. Questo aspetto ha influito sulla decisione di Truman di porre fine al conflitto con l'atomica?

«Quando un Paese si sente aggredito a tradimento, le argomentazioni umanitarie cadono e ogni mezzo è giustificato.

Inoltre, la guerra lanciata dai regimi totalitari aveva abolito ogni confine morale. Infine, un attacco via terra per vincere la resistenza giapponese sarebbe costato la vita a circa 50 mila americani. Spiegare all'opinione pubblica 200 mila morti nemici è più facile».

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