Nessuno può essere più angosciato e insieme speranzoso, proteso, di genitori e figli dei rapiti dopo che Netanyahu ha annunciato che su richiesta americana, egiziana e del Qatar una delegazione israeliana ad alto livello parteciperà a una riunione il 15 agosto per arrivare finalmente a un accordo: Biden dice che dovrebbe essere decisivo per la liberazione dei rapiti e la fine del conflitto a Gaza, e dare così anche una spinta solida al desiderato appeasement mediorientale con Hezbollah e Iran. Lo chiedono tutti, specie le grandi potenze: pace per il Medioriente tracimato dalla guerra seguita alla strage del 7 ottobre e adesso torturato dall'attesa dell'attacco iraniano e degli Hezbollah su Israele.
I rapiti sono ancora 115, di cui 111 dal 7 ottobre e 4 presi fra il 2014 e il 2015. Netanyahu ha già liberato 105 ostaggi con un breve cessate il fuoco e il rilascio di prigionieri palestinesi, quasi tutti terroristi, e poi con operazioni militari di salvataggio. È indicibile la pressione psicologica e politica che adesso si addensa sul suo capo: Israele vive 24 ore al giorno da dieci mesi con l'insonnia, le lacrime, le urla, le manifestazioni e le insinuazioni politiche che ne fanno un leader politico senza cuore e senza scrupoli, e addossano a lui tutta la responsabilità della sorte dei rapiti, non ad Hamas. Le condizioni con cui ha sempre compiuto la trattativa, ormai molto larga sui detenuti palestinesi, i tempi, lo stop alle manovre militari, è però da sempre la garanzia che Hamas non potrà più governare Gaza e farne una fortezza di odio e di nuovo attacco. Ma la richiesta di andare a un accordo senza se e senza ma, adesso viene da gran parte del mondo intero: dagli Usa perché portare a compimento l'operazione di salvataggio sarebbe per i democratici un successo da premiare il prossimo novembre e l'afflato pacifista aiuterebbe a evitare il grosso conflitto con l'Iran che può da un momento all'altro contagiare il mondo; dalla Russia e dalla Cina per motivi diversi legati al rafforzamento e alla salvaguardia dei loro protetti, Hamas, Iran ed Hezbollah; da Europa e Onu per motivi banalmente ideologici e per paura del suo islam interno.
Insomma, Israele viene collocata in questo modo in una continua guerra di attrito in una situazione in cui invece l'Iran nella regione non perde il suo potere strategico e i suoi la seguono. Quanto all'accordo, Sinwar, privo di Haniyeh e Deif e orbato di decine di migliaia dei suoi armati, ha un solo scudo di difesa, i poveri rapiti. Nel momento in cui li liberasse tutti, come Netanyahu e anche Biden intendono, resterebbe nudo di fronte alla punizione umana e divina. In secondo luogo, Netanyahu accetterà persino, magari, di liberare terroristi con cinque ergastoli come Marwan Barghouti, ma in cambio di tutti i rapiti. Una selezione sarebbe lo spunto di un'ennesima ondata di delusione come è stato dopo che aveva detto sì al programma che Biden annunciò il 31 maggio che di fatto Hamas ha poi rifiutato. Inoltre, Netanyahu non può lasciare in mano di Sinwar lo Tzir Filadelfi, il confine con le gallerie monumentali da cui Hamas può velocemente recuperare uomini e armi, né la strada di controllo dentro la Striscia.
Tutta la politica americana e degli «alleati» di Israele crea, pacificando, una situazione al sud, al nord, da lontano (in Iran, Irak, Yemen) e da vicino (Libano, Siria) per cui gli assassini del 7 ottobre, in diverse vesti e con svariate nazionalità, fiancheggiati nel mondo ovunque l'Islam estremo di manifesti, mantengono il
controllo. Netanyahu sa dunque che rinunciare a Gaza e al Nord di Israele costruisce una situazione di pericolo estremo, un'esplosione imminente, non solo in questi giorni. Si sta costruendo una bomba a tempo. Gli Usa lo sanno?
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