L'accusa choc del vescovo: uccide l'uomo, non il sisma

Ai funerali di Stato finiscono nel mirino amministratori e politici. Renzi promette: "Ricostruiremo, i soldi ci sono"

L'accusa choc del vescovo: uccide l'uomo, non il sisma

Centinaia di palloncini bianchi si alzano in volo verso il cielo gonfio di pioggia, uno per ognuna delle 242 vittime di Amatrice e di Accumuli, e la fine del funerale è anche l'inizio di una fase nuova per la città Sabina, piegata dal terremoto, che saluta i suoi figli tra le lacrime, al tramonto. «Non basteranno giorni. Ci vorranno anni», ammonisce il vescovo di Rieti Domenico Pompili nella sua omelia. Si riferisce alla ricostruzione del paese, che dovrà evitare «querelle politiche» e «sciacallaggi» per restituire alla vita «la bellezza di cui siamo custodi». Ma anche alla ferita profonda che il sisma (o meglio le «opere dell'uomo», ricorda ancora il vescovo, perché «Dio non può essere un capro espiatorio») ha inferto a questa piccola comunità.

Amatrice vuole rialzarsi, come testimoniano i ragazzi con le magliette «posso farlo, voglio farlo, lo faccio», come ripete il sindaco Sergio Pirozzi prima, durante e dopo la cerimonia, come promettono le autorità schierate in chiesa in piedi, tra la folla - Sergio Mattarella, Matteo Renzi (che promette «il paese lo ricostruiamo pezzo per pezzo, i soldi ci sono»), Pietro Grasso, Laura Boldrini, il sindaco di Roma Virginia Raggi - e come ripetono i tanti sfollati, alcuni feriti, che hanno voluto essere in questa tenda alzata in poche ore tra le rovine per l'ultimo saluto alle tante vittime del sisma.

Molti restano fuori, qualcuno si lamenta perché «dentro c'è il palazzo e gli amatriciani sono fuori, sotto la pioggia», altri apprezzano che le autorità siano comunque qui dopo il braccio di ferro per riportare ad Amatrice i funerali. La città vuole tornare viva, Ma quell'elenco che ha aperto le esequie, quegli otto minuti di nomi scanditi uno dopo l'altro nel silenzio, per il paese più che nomi sono amici, parenti, il fornaio, il parrucchiere e «quello che faceva il miele», dice ancora il sindaco con gli occhi lucidi. E le decine di bare davanti all'altare montato sulle macerie sono ognuna una cicatrice difficile da rimarginare.

Lucia, vestita di nero, ferita, seduta immobile tra le bare dei suoi figli Franco e Anna, di 23 e 21 anni: le lacrime che non sa versare per la sua tragedia le piange un gruppo di scout dietro l'altare. Lei è stata salvata dall'ex marito, infermiere, che poi ha tirato fuori dalle macerie i due ragazzi senza vita. Accanto a quel dolore silenzioso i singhiozzi disperati intorno ad altre due bare - quelle della piccola Caterina e di sua madre Sabrina - di figli e familiari che non sanno darsi pace, accarezzano un cuscino con la foto della bimba, quasi si stendono sulle due casse, cercando di abbracciarle, gridando «mamma».

Per loro è difficile pensare al futuro, anche se il vescovo ricorda ai politici che «disertare questi luoghi sarebbe come ucciderli una seconda volta». E per qualcuno il futuro non c'è più, come per la famiglia Ianni: padre, madre e i piccoli Ivan e Veralu, tre anni lui, cinque mesi lei, uccisi tutti dal terremoto e ora qui, uno accanto all'altro, dentro una bara, circondati dai nonni, sotto lo sguardo costernato di Mattarella e di tutto il paese.

Non basteranno giorni, ci vorranno anni. Eppure la voglia, la tenacia di un paese che orgogliosamente si definisce «di pastori», promette di voler ripartire.

Con la memoria delle sue cicatrici, di una tragedia che segna, Certo non colpa di Dio, ripete il vescovo, perché i terremoti esistevano già quando l'uomo non c'era. La colpa, continua Pompili, non è nemmeno del «destino, della sfortuna o della coincidenza impressionante delle circostanze». Le responsabilità, se ci sono, sono questione umana, e altri uomini dovranno indagarle.

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