A Washington, durante le proteste per l'arrivo di Netanyahu al Congresso, bruciano la bandiera americana e gridano «Allah akbar», Allah è grande.
La bandiera la perdoniamo. Le urla no. In un libro di vent'anni fa, Jihad: le radici, Luciano Pellicani parlava così dell'odio islamico verso la nostra civiltà: «Il fondamentalismo islamico rappresenta, e non da ieri, la smentita più massiccia e clamorosa della tesi di Fukuyama» della fine della storia, secondo cui la società libera sarebbe diventata, dopo la fine dell'Unione Sovietica, l'unica alternativa possibile per il mondo a venire. Più avanti aggiungeva: «Certamente, gli attivisti del Jihad non sono che un'esigua minoranza; ma altrettanto certamente, essi esprimono e interpretano il diffuso risentimento che anima i musulmani nei confronti dell'Occidente». Oggi, chi si preoccupa non dovrebbe guardare solo al terrorismo, ma al risentimento di una maggioranza senza armi. Le bombe sono solo il simbolo più grossolano di un sentimento che si esprime in modi più sottili, dai finanziamenti alle squadre di calcio da parte dei Paesi islamici, gli stessi che finanziano le moschee in Europa, ai discorsi di alcune manifestazioni.
Per questo le urla non le perdoniamo. Un tempo si bruciava la bandiera e si diceva «Yankee go home». Ora si urla «Allah è grande». È una ritirata contro un'avanzata.
Una richiesta di pace contro una richiesta di guerra che ormai viene pronunciata non solo dai musulmani, ma anche dagli occidentali sottomessi. L'America brucia l'America e rinnega i suoi valori. Allah ora è a stelle e strisce.
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