In guerra ci sono momenti, giorni, situazioni in cui non si è ricchi né poveri, non si ha sesso, stato, lignaggio. Numero 230873 era stato abilitato a meccanico e autista di mezzi pesanti. Aveva insistito a lungo con la famiglia per rendersi utile durante gli ultimi mesi del conflitto e, benché restio, suo padre aveva dato il via libera. L'avrebbe voluta infermiera, assistente, segretaria, qualsiasi cosa, ma non un numero senza sesso né età. A lei invece andava bene, come se in fondo al cuore sapesse che quella era l'ultima occasione per assaporare un minimo di libertà e indipendenza, prendere o lasciare. Elisabetta Alessandra Maria si era così ritrovata con un numero a riassumere i tre nomi che portava dalla nascita. Più semplice, più sbrigativo. Erano mesi concitati, la seconda guerra mondiale non era vinta ma lo sarebbe stata da lì a poco, e il servizio ausiliare territoriale di Sua Maestà non aveva tempo da perdere nel far troppi distinguo fra nomi e cognomi. Solo che Numero 230873 era Sua Maestà. Lo sarebbe diventata entro una manciata di anni.
In quegli stessi giorni del 1945, gli inglesi si erano abituati a vedere sfrecciare ovunque le buffe e indistruttibili auto degli alleati americani: le jeep. Numero 230873 ci aveva fatto l'occhio, forse le aveva persino provate durante le esercitazioni per ottenere, dopo quella di meccanico, anche l'abilitazione come autista di camion. Erano resistenti, fedeli, con un unico difetto: non erano inglesi. Più o meno lo stesso pensiero che da lì a poco avrebbe tormentato un ingegnere suo suddito: Maurice Wilks, capo design della Rover. Agli inglesi che si avviavano alla ricostruzione, circondati com'erano da campagne, una macchina simile alla jeep mancava. Però doveva essere più british. Serviva dunque un modello indistruttibile ma a suo modo elegante. Capace di far ben figurare sir e lady sulle strade di tutti i giorni, di rendersi utile al contadino con il carico di legna, facendo felici al tempo stesso nobili e gente comune. Per Wilks era diventata quasi un'ossessione quando, un giorno del 1947, mentre se ne stava seduto in spiaggia, le sue dita sulla sabbia avevano tracciato le forme a lungo cercate. Erano le linee giuste. Stava nascendo la Land Rover.
Un anno dopo, il 30 aprile del 1948, al Salone di Amsterdam, veniva presentato il primo esemplare della Series I, nato utilizzando proprio il pianale della jeep americana.
Sessantotto anni dopo, abbandonato su un terreno della campagna gallese, quello stesso esemplare è stato ritrovato malconcio, arrugginito e grippato dopo diversi passaggi di mano e anni d'utilizzo come presa di forza statica per azionare macchinari agricoli. Un esemplare fratello, o meglio sorella, visto che si parla di auto, della Land Rover numero 100 che, nel 48, con una geniale trovata promozionale, era stata donata a re Giorgio VI d'Inghilterra, amante delle gite all'aria aperta e felice di utilizzare un mezzo che lo avvicinasse al popolo. Sorella, soprattutto, di quella al seguito del meccanico e autista Numero 230873 in visita di Stato con il marito Filippo d'Edinburgo in Kenya quando, il 6 febbraio del 52, da Buckingham Palace, venne avvisato della morte del padre.
Per Elisabetta, diventata regina d'Inghilterra, era stato un addio a molte cose e, fra queste, al ricordo di quel numero identificativo. Nessun addio, però, all'attestato di autista di camion, da allora scettro invisibile della propria indipendenza solo assaggiata. Uno scettro tenuto segretamente e per sempre stretto in pugno al pari di quello di sovrana degli inglesi mentre la sua Land Rover rappresentava il trono da cui esercitare la voglia di libertà e vicinanza alla gente. In fondo, per l'autista di mezzi militari Elisabetta II, abituata al lusso e alla comodità, che altro poteva essere la Land Rover se non un piccolo, sicuro, poderoso camion ingentilito nelle forme? Un camion sempre al proprio servizio capace di accogliere e, forse, persino celare la sua voglia di evasione. Un rifugio, dunque. Dove dimenticare i ceppi del cerimoniale mentre guidava nel verde della tenuta di Balmoral, in Scozia. Un luogo in movimento dove all'occorrenza tirare imboscate diplomatiche come quella di vent'anni fa ai danni del futuro re d'Arabia Saudita, Abdullah bin Abdulaziz.
Curioso. È proprio di questi settimane l'annuncio che nel Paese del Golfo le donne potranno finalmente guidare. Eppure, nel 1998, con enorme anticipo e sempre su una Land Rover, Elisabetta II aveva posto la prima pietra di questa rivoluzione. Aveva invitato il futuro re arabo (di fatto già regnante perché re Fahd era stato colpito da infarto) a una gita per la tenuta. Abdullah era uscito dal castello prendendo posto sul fuoristrada dal lato passeggero, mentre un assistente del suo seguito si accomodava dietro. Solo a quel punto, spiazzando gli ospiti, Elisabetta era entrata nella stessa Land Rover, sedendosi al volante e via, aveva preso a pigiare sull'acceleratore per chilometri fino a quando Abdullah non le aveva chiesto di rallentare, preoccupato nel vederla chiacchierare e guidare veloce e decisa. Il messaggio a favore delle donne era arrivato forte e chiaro.
La Land Rover ritrovata in Galles e che ora, a due anni dall'uscita di produzione, la Casa si appresta a restaurare in ogni dettaglio per celebrare gli 80 anni dal primo lancio, è dunque molto più di un'auto. Per la regina è stata un camion dove mettere alla prova le proprie abilità d'autista e sentirsi libera, per la gente comune un mezzo che ha accompagnato la voglia di avventura di generazioni, per molti uno status symbol, un sinonimo e un contrario perché popolare ma anche d'elite, una figlia della guerra, un sogno realizzato e, su tutto, il passato che si perpetua per non farci dimenticare. In anni più recenti, numero 230873 l'ha utilizzata anche per risolvere una grana familiare.
Di Kate Middleton, futura nuora, le piacevano molte cose ma non quelle minigonne troppo corte e le scarpe con le zeppe. «Forza, vieni che ti porto a fare un giro per la tenuta e, sì, guido io...», si narra le abbia detto un giorno. Ecco. Due chiacchiere. Tutto risolto.
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