«La Magneti Marelli di Crevalcore non deve chiudere», sbraita il segretario della Cgil Maurizio Landini, invocando il solito mantra dello sciopero generale. Dov'è la notizia? C'è un sindacato che se la prende coi soliti padroni («Stellantis ha venduto agli americani salvando i dividenti degli Elkann») e che snocciola i soliti no: niente chiusura, niente licenziamenti, no alla delocalizzazione.
C'è un vecchio detto della Prima Repubblica che traduce al meglio questa schizofrenia cgiellina: «Il massimalismo è il tutto, mai. Il riformismo è il niente, subito». La passione di Landini per un infinito autunno caldo è figlia di questo atteggiamento tipico della sinistra movimentista, quella che alza sempre l'asticella, anche di fronte a una rivoluzione epocale come quella che stiamo vivendo.
Pensiamo alla sostenibilità e alla rivoluzione green che l'Europa sta cercando di imporre da qui al 2035, quando tutte le auto dovrebbero essere alimentate da batterie. Un ruolino di marcia verso la decarbonizzazione che tutti giudicano troppo severo. Ecco perché le fabbriche di motori e componentistica auto sono a rischio chiusura senza un progetto di riconversione, dalla Gkn di Campi Bisenzio alla Wärtsilä di Trieste, dalla Continental di Livorno alla Bosch di Modugno. Tutti tranne Landini, che snobba gli obblighi di una regolamentazione troppo costosa per le case automobilistiche, mentre gli Usa e la Cina viaggiano a colpi di incentivi. Non è un caso se proprio alla Gnk a Landini gli operai a rischio licenziamento hanno regalato una «gelida cordialità» contro la sua inopportuna «passerella mediatica».
Per Landini infatti il repentino cambio di rotta imposto da Bruxelles al settore automotive va incoraggiato con vigore, «a dispetto del silenzio dei giornaloni e dell'attacco che le destre in Europa stanno conducendo contro l'ambientalismo», come ha dichiarato di recente: «Le nostre priorità sono la lotta al cambiamento climatico, una giusta transizione ecologica e sostenibile e il superamento dell'uso delle fonti fossili». Fabbriche piene e pompe di benzina vuote, eccolo il «tutto mai».
Nel frattempo i prezzi delle materie prime come rame, manganese e cobalto sono impazziti, che l'export con Australia, Sud Africa, Gabon e Repubblica democratica del Congo da cui importiamo questi metalli preziosissimi sia finito nel tritacarne della guerra in Ucraina e aggravato dalla spirale dell'inflazione. Il prezzo del nichel è aumentato di oltre il 70% e quello del litio dell'870%. All'Europa servirebbero almeno 15 anni per non dipendere in tutto dalla Cina, padrona del mercato delle batterie per auto elettriche. Tutti elementi che Landini nella sua analisi dimentica di prendere in considerazione. «Ci sono professionalità preziose che non possiamo perdere» dice al Giornale Roberto Vavassori, presidente dell'Anfia, l'Associazione nazionale della filiera dell'industria automobilistica, che snocciola i dati di agosto sulla vendita di auto: «Una su 4 è elettrica o plug-in, in Italia è il 10%. Dobbiamo lavorare per una formazione e una conversione di nuove figure professionali che il mercato ci chiede».
Senza una giusta pianificazione industriale, come fa a non chiudere una fabbrica come la Magneti Marelli che produce batterie per auto a carburante fossile, visto che Landini non vuole che si costruiscano più? Siamo
agli slogan degli anni Settanta, quelli del salario sganciato dalla produttività, mentre qui si rischia la deindustrializzazione. E se assieme al diesel sparissero pure gli operai, a Landini chi lo pagherebbe lo stipendio?
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