L'angoscia di Cecilia nel carcere lager

L'italiana in cella privata di tutto, dorme sul pavimento e sente le urla dei torturati

L'angoscia di Cecilia nel carcere lager
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Le notizie peggiori per Cecilia Sala non arrivano da Teheran, ma da Milano. Il «no» della procuratrice generale Francesca Nanni alla richiesta di arresti domiciliari per l'iraniano Mohammad Abedini Najafabadi, detenuto a Opera su richiesta di Washington, rende improbabile una liberazione in tempi brevi della giornalista italiana. E rischia di aumentare le sue sofferenze fisiche e psicologiche.

Cecilia, seppur innocente e priva di colpe, è indiscutibilmente prigioniera di un caso molto più grande di lei. Un caso in cui restrizioni e disagi imposti sono altrettanti messaggi rivolti al nostro governo e alla nostra opinione pubblica. Le due coperte - una allungata sul nudo pavimento, l'altra tirata fin sopra gli occhi per ripararsi dal freddo e dalla luce che illumina giorno e notte la sua cella stanno diventando i simboli della prigionia di Cecilia. Una prigionia crudele e immotivata. Ma quei particolari sono anche strumenti di una cinica partita negoziale. Come lo sono la vaghezza delle accuse, l'isolamento in una cella di quattro metri per due e la mancata consegna dei generi di conforto portati nel carcere dall'ambasciatrice italiana Paola Amedei.

Per non parlare delle precarie condizioni igieniche, del cibo disgustoso e delle urla provenienti dalle celle delle torture. Orrori e tormenti di cui hanno riferito, negli anni, migliaia di ex-detenuti iraniani e stranieri passati attraverso gli orrori di Evin, il carcere simbolo della repressione iraniana. Ma peggiore dei crucci fisici è sicuramente l'angoscia.

Da conoscitrice dell'Iran Cecilia non ignora la triste fama di una galera dove tante donne-dissidenti hanno subito violenze fisiche e sessuali. Violenze e torture usate dagli aguzzini per estorcere false confessioni con cui giustificare pesanti condanne successive. Violenze costate anche la vita, come capitò alla foto-giornalista iraniano-canadese Zahra Kazemi Ahmadabadi deceduta - nel luglio 2003 - dopo 19 giorni di spietati interrogatori.

Dunque l'angoscia imposta a Cecilia ai suoi familiari e, di riflesso, al governo e all'opinione pubblica italiana fanno parte del gioco. Se Cecilia fosse una detenuta comune o una giornalista accusata di connivenza con il dissenso non le sarebbe mai stato concesso di telefonare a famiglia e fidanzato. E tantomeno di raccontare le condizioni della sua detenzione.

Ma Cecilia è soprattutto un ostaggio. Un ostaggio indispensabile per riportare a casa un collaboratore ritenuto prezioso dai vertici della Repubblica Islamica. In tutto ciò chi coordina la sua detenzione usa le telefonate concesse in queste due settimane e il colloquio con l'Ambasciatrice per far capire che le condizioni di Cecilia possono migliorare o peggiorare.

Sull'altro piatto della bilancia negoziale c'è infatti l'ingegnere svizzero iraniano Najafabadi. Un ingegnere di cui le autorità statunitensi richiedono l'estradizione con l'accusa di aver contrabbandato tecnologie indispensabili per il controllo dei droni. Se Najafabadi fosse nel carcere di Opera per un semplice errore l'ambasciatore iraniano a Roma, Mohammadreza Sabouri non si sarebbe probabilmente curato di lui.

Invece dopo averne discusso il caso con il segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia ha addirittura firmato un comunicato ufficiale dell'Ambasciata in cui racconta di aver «scambiato opinioni sul cittadino iraniano Mohammad Abedini, detenuto nel carcere di Milano con false accuse e della signora Cecilia Sala, cittadina italiana, detenuta in Iran per violazione delle leggi della Repubblica islamica». Un modo come un altro per far capire che le condizioni e le sorti dei due detenuti sono ormai indissolubilmente collegate.

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