L'appello Onu: "Riaprite i porti. Si rischia la carestia mondiale"

Con 25 milioni di tonnellate di grano bloccate, potrebbero salire a 320 milioni le persone a soffrire di fame acuta

L'appello Onu: "Riaprite i porti. Si rischia la carestia mondiale"

Fame acuta. Se la guerra andrà avanti e il granaio del mondo resterà ancora sotto le bombe, salirà a quota 320 milioni il numero di persone a patire la fame acuta nel pianeta. Sono 44 milioni in più dei 276 milioni contati a inizio anno. È l'allarme delle Nazioni Unite, rilanciato da un appello del Programma alimentare mondiale (Pam), l'agenzia Onu che ha chiesto ieri la riapertura immediata dei porti in Ucraina, per scongiurare la carestia: «Nella zona di Odessa, nel sud dell'Ucraina, i porti devono essere riaperti con urgenza per evitare che la crisi globale della fame sfugga al controllo».

La presenza di circa una ventina di navi russe nel Mar Nero sta infatti bloccando qualsiasi attività. E l'insicurezza alimentare non ha mai raggiunto livelli così alti come dopo l'esplosione del conflitto. Un bilancio tragico, che rischia di peggiorare notevolmente dopo il 2021, quando è stato stabilito un nuovo triste record, in cui è salito del 25% il numero di persone in stato di fame estrema rispetto all'anno precedente. La guerra sta facendo il resto. I campi di grano si sono trasformati in campi di battaglia. E il blocco dei porti, dopo che i russi si stanno concentrando sulla conquista degli sbocchi sul Mar Nero per avere continuità territoriale con il Donbass e il controllo degli scali marittimi, rischia seriamente di trasformare la fame in una piaga dirompente nei prossimi mesi. Non solo per gli ucraini, già stremati dalla guerra, ma anche per il resto del mondo. «I silos di grano dell'Ucraina sono pieni. I porti sul Mar Nero sono bloccati, lasciando milioni di tonnellate di grano intrappolate a terra o su navi che non possono muoversi», spiega il Pam.

L'ultimo bilancio della Fao è di 25 milioni di tonnellate di grano bloccate in Ucraina, su un totale di 50 milioni che transitavano attraverso i porti ucraini nei mesi precedenti il conflitto. È la crisi più nera per il «granaio del mondo», con ripercussioni internazionali per quei Paesi che dipendono quasi totalmente dalle risorse russe e ucraine, con picchi del 100% in Eritrea, del 90% in Somalia, dell'80% in Libano e in Congo. La Russia e l'Ucraina insieme rappresentano infatti il 30% delle esportazioni globali di grano e il 20% delle esportazioni globali di mais e sfamano 400 milioni di persone nel mondo, con gravi conseguenze per quei Paesi che più dipendono dal commercio alimentare con Mosca e Kiev e che già primeggiano nella lista dei Paesi meno sviluppati (Ldc) e a basso reddito con deficit alimentare (Lifdc). Prima dell'invasione russa, l'Ucraina esportava circa 5 milioni di tonnellate di prodotti agricoli ogni mese, attraverso i porti di Odessa e Mykolaiv, ma ora, a causa del blocco navale, il totale è crollato a circa 500mila tonnellate di grano al mese.

«È la catastrofe dopo il disastro legato all'aumento dei prezzi dei generi alimentari, del carburante e del costo del trasporto merci - spiega David Beasley, direttore esecutivo del World Food Program (il Pam) - Perciò la questione dei porti sarà decisiva per il mondo nei prossimi 8-12 mesi». E non è tutto. L'altro allarme, lanciato ieri dal ministro dell'Agricoltura tedesco, Cem Özdemir, riguarda il saccheggio dei russi alle poche risorse in circolazione. Gli ucraini sono spesso costretti dagli occupanti russi a vendere le riserve a prezzi ridicoli, oppure «la soldatesca di Putin si impossessa semplicemente delle forniture». «Di sicuro tre parole descrivono questa situazione: estorsione, furto e danneggiamento», ha spiegato il ministro, aggiungendo che i russi stanno bombardando le ferrovie verso l'Ovest anche per impedire il trasferimento del grano ucraino verso i mercati mondiali.

Come se non bastasse, l'Ucraina è anche una grande esportatrice

di olio di girasole, che finisce quasi al 90% in Europa, con l'Italia che l'anno scorso ha acquistato da Kiev quasi la metà di quello importato (46%) per un valore pari a 287 milioni di euro. I prezzi sono già alle stelle.

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