L'occupazione in Italia nel 2022 ha raggiunto il massimo storico al 61% della forza lavoro. Il XXII Rapporto Inps relativo al 2022 ha certificato che il mercato del lavoro è in buona salute e che le sue condizioni non impongono l'adozione di misure calate dall'alto, come il salario minimo in quanto non solo non esiste quella precarizzazione diffusa che spesso la sinistra denuncia (la maggior parte dei posti è a tempo indeterminato), ma il livello delle retribuzioni è più che dignitoso e quasi ovunque superiore alla soglia dei 9 euro l'ora che il Partito democratico e i suoi accoliti vorrebbero imporre per legge.
Per la popolazione in età 15-64 anni, infatti, il tasso di attività l'anno scorso si è attestato al 66,4%, anch'esso un livello record. Prima della grande crisi finanziaria internazionale del 2008, l'indicatore era al 63,2% e con tasso di occupazione al 58,8. Il contributo delle donne al recupero post-pandemico risulta rilevante: il 57,4% di tasso di attività ad aprile 2023 supera quello pre-pandemico e lo stesso vale per il tasso di occupazione, ora pari al 52,3%. Entrambi questi indicatori sono maggiori di oltre cinque punti a quanto si registrava ad aprile 2008.
I posti sono di buona qualità: l'incidenza dei contratti a termine sul totale dei dipendenti è pari al 16% ad aprile 2023, è inferiore a quella rilevata prima della pandemia (16,6% a febbraio 2020). Tale stato di cose, sottolinea l'Inps, evidenzia come «non si possa sostenere che la diffusione del lavoro a termine costituisca il nucleo essenziale del recente andamento positivo del mercato del lavoro nel settore delle imprese private». Il ministro del Lavoro, Marina Calderone, ha rimarcato che è in corso «una generale ripresa». Nel secondo trimestre 2023, ha rilevato l'Istat, i primati dell'anno scorso sono stati ulteriormente migliorati con un tasso di occupazione sale al 61,3% e quello di disoccupazione sceso al 7,6%, un dato notevole se si pensa che la Nadef 2020 stimava per quest'anno una percentuale di persone in cerca di occupazione ancora prossima al 10 per cento.
Il trend positivo non esime la classe dirigente dall'affrontare alcune criticità. In primo luogo, il tasso di occupazione è ancora di 13 punti percentuali inferiore alla media europea. Un gap determinato anche dal progressivo invecchiamento della popolazione, dal persistente divario territoriale tra Nord e Sud, nonché dalla divaricazione tra lavoro dipendente, in aumento, e lavoro autonomo, in diminuzione.
Il Rapporto Inps ha, inoltre, messo in luce la sostanziale inutilità del salario minimo. I lavoratori poveri (con retribuzioni inferiori al 60% della mediana) tra i dipendenti privati a ottobre 2022 erano 871.800, pari al 6,3% della platea di riferimento. Il fenomeno, tuttavia, è dovuto a una bassa intensità di lavoro più che a una retribuzione bassa. I working poor «risultano particolarmente addensati tra i dipendenti part time (oltre mezzo milione)». Non è possibile precisare ulteriormente quanta parte del loro deficit retributivo sia attribuibile a una bassa intensità di impiego (part time di poche ore) e quanta, invece, a livelli salariali orari insoddisfacenti». «Per quanto riguarda gli oltre 350mila lavoratori poveri a tempo pieno, prosegue l'Inps, essi risultano in buona parte riconducibili a due tipologie contrattuali specifiche (apprendistato e intermittente) mentre, per la quota restante, contano significativamente condizioni sia di assenza temporanea sia di situazione transitoria (superata nell'arco dell'anno)». I working poor full time per ragioni salariali sono 20.
300 (0,2% sul totale della platea dipendenti) e distribuiti tra un numero rilevante di contratti, inclusi quelli con le platee più vaste e firmati dalle organizzazioni sindacali maggiori. I working poor risultano quindi sotto il profilo numerico «una componente marginale dell'insieme del lavoro dipendente». Una legge, pertanto, non serve.
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